Veltroni è la persona meno indicata possibile per governare un Paese

Oggi ha tutta l'aria d'essere venerdì.
Se non ho fatto male i calcoli potremmo ritrovarci lunedì 15 ottobre, vale a dire il giorno dopo le Primarie.

Mi piacerebbe stare qui a dire: gente, vi saluto. Quando ci rivedremo l'Italia sarà un altro Paese. Non si sa se migliore o peggiore, però un altro Paese. In bocca al lupo a tutti. Invece mi sa tanto che non sarà così ed è una tristezza, questa. Lunedì sarà sempre la solita Italia, dall'ora di pranzo a quella di cena. Non mi faccio illusioni.

Questa cosa, questa convinzione, che non è solo mia peraltro, dovrebbe pesare come una maledizione, come una condanna a morte. La consapevolezza d'essere addentro a un Paese serenamente rovinato, decrepito, marcio e che mai cambierà, certamente non grazie a una giornata di urne, questa coscienza dovrebbe portarci in piazza, a strillare, a battere sulle pareti dei Palazzi che contano, a occupare le strade, a stenderci sulle strisce pedonali del Centro. Dovrebbe condurre almeno a una sparatoria, a un paio di morti, a due o tre rapimenti, a scontri di piazza, a un'esplosione. Senza idealismi, beninteso: solo pura e semplice rabbia. Una rabbia che scaturisca dal nostro ventre da italiani. Come a dire: cazzo, ci vogliono inculare un'altra volta, ci stanno per inculare, ci inculeranno con le loro belle facce pulite e la barba fatta. Facciamoci sentire. Oppure no, restiamo zitti ma quantomeno a braccia incrociate, rabbiosi, incazzati neri.


Ma niente del genere accadrà da oggi a lunedì prossimo: la gente si alzerà e siederà sulle poltrone, si infilerà in bocca forchette e pistole e starnutirà come tutti gli altri giorni possibili. Poi si annoderà al collo una cravatta male abbinata, oppure un cappio, e si infilerà in un traffico da tregenda biblica.

Mi sto convincendo che quello che manca all'Italia è il furore. La rabbia. S'è parlato, in questi giorni, di Che Guevara: un uomo criticabile, violento, geniale, bellissimo, ardente, che fallì da amministratore e da politico e si reinventò rivoluzionario guerrigliero. Che Guevara - non voglio parlare di lui ma seguitemi un attimo - nutriva questa rabbia, questo furore di cui vado dicendo, perciò, a un certo punto, scelse di allacciarsi gli stivali ai piedi e di uccidere e farsi ammazzare anziché rassegnarsi davanti ai propri limiti. Voi, con una laurea in medicina in tasca e una famiglia benestante alle spalle lo avreste fatto? Io no. Penso nemmeno Mastella. Nemmeno Gasparri. Quello che fece, l'argentino col basco, prima di ogni altra cosa, fu di liberare Cuba. Non da Batista, per carità, ma da questa stessa malattia che oggi attanaglia gli italiani: Guevara prese la paura dei cubani e la trasformò in furore.

C'è un passaggio, proprio in "Furore" di Steinbeck, che vorrei adoperare. Fa così:

"Le donne osservavano i mariti, per vedere se questa volta era proprio la fine. Le donne stavano zitte e osservavano. E se scoprivano l'ira sostituire la paura nei volti dei mariti, allora sospiravano di sollievo. Non poteva ancora essere la fine. Non sarebbe mai venuta la fine finché la paura si fosse tramutata in furore".

L'altra sera sentivo Veltroni a Matrix e mentre lui parlava a me s'accaponava la pelle. Nonostante io provi della stima per l'uomo-Veltroni, devo dire di non aver mai visto seduto su una poltrona di uno studio televisivo una persona meno indicata per governare un Paese.

Ha parlato a lungo, e forbitamente, e in oltre due ore non gli è mai scappata, mai, neanche per sbaglio, una frase che non fosse solo minimamente retorica. Dentro Veltroni non c'è una goccia di sano furore, esattamente come non c'è dentro ciascuno di noi italiani: Veltroni, che da lunedì guiderà l'Italia, è semplicemente una catastrofe, sebbene sia di certo la catastrofe minore tra tutti i cataclismi che rappresentano gli altri soncertanti candidati.

A un certo punto, pungolato, ha detto che lui non concepisce tutti quei politici che si lamentano. I politici non dovrebbero lamentarsi, ha detto lui, sottintendendo che i politici fanno un lavoro blando e leggero, e che sono i camionisti a doversi lamentare piuttosto, ha suggerito sempre Veltroni, perché loro sì, i camionisti, insieme agli scaricatori dei mercati generali e ai minatori, loro sì che fanno un lavoro devastante, altro che noi politici, ha ribadito Veltroni.

Non so voi, ma a me è venuta voglia di rovesciare la televisione sul parquet: niente di buono verrà mai fuori da una persona che parli alla sola funzione di ricercare gli applausi facili della gente. Voglio molto bene a Uolter, ma l'Italia non si cambia con tutto questo consenso puzzolente. Andando dritti per la propria strada, facendo le più impopolari delle scelte, circondandosi di teste che fanno no, fino a quando, improvvisamente, non fanno : ecco come si fa. Vorrei gente incazzatissima: vorrei vedere la bile scorrere come passato di fagioli. Grigia e densa. Vorrei, una volta tanto, non trovarmi d'accordissimo con tutto quello che dice Veltroni, o chi per lui, perché non è così, scardinando le morbide porte dell'Ovvio, che si disincaglia il Paese dalle secche.

Non voglio idealismo, per carità.
Voglio rabbia, furore, e che tutto questo sia mondato dall'idealismo: vorrei che la gente, che gli italiani, fossero spaventati e non rassegnati da questo Nulla che vorrebbe governarci e che, di fatto, ci governerà. Come nel passaggio di Steinbeck, vorrei vedere l'ira sostituire la paura. Può esserci furore senza retorica idealista: non servono, lungi da me pensarlo, uomini abbarbicati sugli alberi in tuta mimetica, però non serve neanche l'opposto di questo, ovvero tizi incravattati o tizie in talleur che, quando va bene, parlano di un partito "nuovo, aperto e plurale", "alternativo", di "un Pd capace di scelte forti e impegnative, per un'Italia più ricca e più giusta" (Rosy Bindi); di uno "scatto di innovazione" (Veltroni); di un "voto per cambiare davvero" (Adinolfi, il quale, tra le altre cose, adduce come motivazione a votare lui, questa: "Meritiamo il vostro consenso perché il vincitore annunciato ne avrà già molti e allora è forse utile dare un segnale vero di discontinuità", che è più o meno la retorica dei concorrenti del Grande Fratello quando vanno in Confessionale e non sanno che motivazioni dare ai nomi fatti); oppure chi, come Gawronski, auspica che il 14 ottobre lo votino "tutti coloro che, come me, non hanno paura di mettersi in gioco".

Questi tizi imbellettati che vanno da Matrix e da Vespa a  guardare fissi nelle telecamere mentre sciorinano dati, numeri e frasi fortemente aggettivate, mi ricordano, tutti, i concorrenti di un qualche show televisivo a suffragio telefonico, in cui la gente da casa deve fare il numerino per votare il preferito mentre quello se ne sta accanto al conduttore, inquadrato, a fare il segno giusto con le dita o le smorfie con il labiale, "due! due! vota due!" L'avete vista la foto di Rosy Bindi che c'è in alto a sinistra nell'header del suo sito ufficiale? Sembra uno spot della Johnson & Johnson. Fa spavento.

C'è un altro passaggio nel libro di Steinbeck, proprio alla fine del primo capitolo. Fa:

"Dopo un poco, i visi degli uomini perdettero la loro stupefatta perplessità ma acquistarono un'espressione dura, collerica, ostile. Allora le donne capirono che erano salvi, che gli uomini non si davano per vinti, e allora ardirono a domandare: Cosa facciamo? E gli uomini risposero: Chi lo sa, ma le donne capirono che erano salvi, e i piccoli capirono che erano salvi. Le donne e i piccoli avevano l'intima convinzione che nessun disastro era catastrofico se i loro uomini non si arrendevano".

C'è qualcuno di voi, là fuori, che ancora può dire di non essersi arreso?

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