Monthly Archive for Novembre, 2008

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Barack Obama Barack Obama Barack Obama Barack Obama

Riflessione da treno, ripensando a spunti di scrittura fornitimi durante un aperitivo (!).

Ha vinto Obama. E qui dicono potrei chiudere il post.

E invece no.

Io sono contenta che abbia vinto Obama. Questo traguardo raggiunto da Obama mi permette di fare diverse cose:

  • Mi permette di gongolare al pensiero di quanto è bello e moderno e luccicante che Barack Obama – che è nero- abbia vinto le elezioni e che diventi quindi Presidente degli Stati Uniti.
  • Mi permette di credere che per qualcuno lo slogan YES WE CAN funzioni veramente; qua ci si è bloccati invece ad un rassegnato e bruciante YES WE CAN’T meno travolgente ma più realistico.
  • Mi permette di sgranare gli occhi davanti lo schermo TV, di stupirmi, di emozionarmi ancora, di farmi luccicare le pupille davanti la conferma che l’American Dream esiste ancora, nonostante Wall Street, i fratelli Lehman e i McDonald’s. Possiamo recuperare le valigie di cartone dei bis bis, cercarci un volo low cost e girare anche noi la ruota della fortuna.
  • Questo vorticoso e avvolgente incanto elettorale mi permette di ignorare – per cause di trasporto maggiore e almeno per la durata di un TG- il tragico stato mentale nel quale verte lo stivale in mezzo al mare. Noi, insomma.
  • Il punto qua sopra, finito il momento di stizzoso fastidio di cui vado soggetta a scadenza telequotidiana, mi causa attacchi di consapevolezza di quanto una persona, quella persona, possa influire nella mia vita al dettaglio.
  • Mi permette di pensare che la campagna elettorale di queste elezioni USA non è stata solo negli USA (coro: non solo negli USA, non solo negli USA). In tanti abbiamo moralmente votato per Obama. Poi magari in tanti non abbiamo votato fisicamente alle ultime elezioni italiane.
  • Mi permette di sperare che adesso che ha vinto Obama magari per i prossimi settacinque giorni sentirò meno ‘sto cavolo di cognome. Almeno fino al 6 di gennaio, quando tornerà per insediarsi in pompa magna nella nuova magione, dopo il tour ufficiale del 25 dicembre.

 

Riflessioni da treno, dove le prime pagine di tutti i quotidiani abbandonati per terra e sui sedili colorano il vagone di rosso e di blu. Tutto bello, tutto vero. Finalmente.

Anche se.

 

(letture consigliate: Obama Story, dall’Africa all’Air Force One – supplemento di questa settimana al numero di Vanity Fair in edicola. Non perdetevelo!)

Sabato, mentre mettevamo i dischi, è entrato…

L'originale, da leggere prima, è qui.

Sabato, mentre io e Attimo mettevamo i dischi in balera a Casumaro, è entrato Pupo.

Così: in un non brillantissimo sabato sera post-festivo (peraltro più affollato di quanto l'infelice collocazione da day after di Halloween facesse presagire), mentre stavo passando un po' di classici della Romagna, mazurka, fox trot, valzerini, il piccolo e arcinoto musicista italiano (noto per essere il conduttore di un fortunato quiz preserale, tra le altre cose) è entrato dall'ingresso di via Lenin come un avventore qualsiasi. Si è messo in coda coi suoi amici, si è fatto pagare da bere, ha promesso un paio di volte di offrire lui il prossimo giro, e si è messo a ballare. Io, da grandissimo fan delle sue canzonette, ho rischiato di svenire, e ho continuato a mettere i dischi con il cuore a mille e l'ansia da prestazione di chi si trova davanti a uno dei suoi piccoli (in ogni senso) idoli.

Avevo sempre saputo che portarmi nella valigetta una copia del tendenzialmente imballabile Su di noi prima o poi sarebbe servito a qualcosa; così, quando abbiamo fatto partire il pezzo in questione, Pupo ha reagito con lo stile tranquillo e sportivo che gli si confà: ha alzato le dita in segno di vittoria, e si è messo a fare il karaoke sulla sua stessa canzone, tra le vecchie felici, i mariti con le fotocamere che lo immortalavano e agli amici che ridevano perchè sapevano che a questo punto non avrebbe offerto più da bere. Ha fatto un paio di richieste, subito accontentate (Toto Cutugno e «qualcosa di romagnolo»; abbiamo messo L'Italiano e Lauretta mia, e pare aver gradito), e alle tre passate, sulle note di Maria Elena dei Los Indios Tabajaras, ha lasciato il locale.

Così.
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Sabato, mentre io e Rachele mettevamo i dischi al Torino, è entrato Sir Oliver Skardy dei Pitura Freska.

Così: in un non brillantissimo sabato sera post-festivo (peraltro più affollato di quanto l'infelice disposizione dei tavoli permettesse), mentre stavo passando un po' di classici reggaeton da cazzeggio, il bidello musicista veneziano (noto per essere più popolare di Cacciari e forse del Doge, nella sua città, tra le altre cose) è entrato dal retro del club di Campo S. Luca come un amico dei gestori. Si è messo in coda coi suoi amici, ha pagato due giri di spritz per tutti, ha fatto su offrendo agli astanti, e si è messo a ondeggiare lentamente. Io, da grandissimo fan del compianto gruppo ska veneto, ho rischiato di svenire, e ho continuato a mettere i dischi con il cuore a mille e l'ansia da prestazione di chi si trova davanti a uno dei suoi piccoli idoli.

Avevo sempre saputo che portarmi nella valigetta una copia del tendenzialmente imballabile Na bruta banda prima o poi sarebbe servito a qualcosa; così, quando abbiamo fatto partire Pin Floi, Skardy ha reagito con lo stile tranquillo e sportivo che gli si confà: ha tirato un bestemmione alzando le dita in segno di vittoria, e si è messo a ballare la sua stessa canzone, in mezzo agli amici che ridevano e le ragazze impazzite che gridavano come ochette "Io Venezia la ooodiooo". Ha fatto un paio di richieste, subito accontentate (i Casino Royale e «qualcosa dei Coconutz»; abbiamo messo Bonnie e Clyde e La puzza dei ricordi, e pare aver gradito), e alle tre passate, sulle note di Laurel Aitken, si è addormentato ad un tavolino mentre gli fottevano il fumo.

Così.

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Sabato, mentre io e Cagnazz mettevamo i dischi al Renfe, è entrato Francesco Bianconi.

Così: in un non brillantissimo sabato sera post-festivo (peraltro più affollato che nell'infelice serata di Halloween a base di ragnatele e dance commerciale), mentre stavo passando un po' di classici indie spinti, il romantico musicista italiano (noto per la sua capigliatura, la voce profonda e il successo con le donne, tra le altre cose) è entrato dall'ingresso di via Bologna come un fighetto qualsiasi. Si è messo in coda coi suoi amici, non ha pagato perchè l'hanno riconosciuto, ha preso da bere sempre aggratis, e si è messo a ballare. Io, da grandissimo fan dei Baustelle, ho rischiato di svenire proprio come la maggior parte delle ragazzine, ho lasciato Cagnazz in console e mi son fatto un cubalibre triplo con il cuore a mille e l'ansia da prestazione di chi si trova davanti a uno dei suoi idoli.

Avevo sempre saputo che portarmi nella valigetta una copia del tendenzialmente imballabile Sussidiario illustrato della giovinezza prima o poi sarebbe servito a qualcosa; così, quando abbiamo fatto partire La canzone del riformatorio, Bianconi ha reagito con lo stile tranquillo e sportivo che gli si confà: ha chiesto scusa agli amici, si è allontanato venendo verso la console, intimandomi di toglierla e di fare poco il furbetto. Mi ha proposto proprio proprio di mettere il loro ultimo singolo, che non avevo con me perchè il cd si inceppa sempre a causa delle tracce nascoste. Ha fatto un paio di richieste, subito accontentate (Franco Battiato e «qualcosa che spacca»; abbiamo messo Voglio vederti danzare e Tourette's dei Nirvana, e pare non aver gradito), e alle cinque del mattino, sulle note di I just can get enough dei Depeche Mode, si è acceso una paglia, soffiandomi il fumo sulla faccia in segno di gradimento.

Così.

Adorava l’America


Adorava l'America. La idolatrava smisuratamente.
Cassius McLain Sr. non si allacciava più le scarpe da solo dal settembre 2001, più o meno da quando lui e sua moglie avevano appurato che il povero Maurice ci aveva lasciato le penne su quella Ovest: da lì il Parkinson aveva accelerato quella che il Dr. Lance chiamava la Curva Pericolosa e buonanotte al secchio. L'ultima volta aveva rifiutato il deambulatore, quattro anni fa. L'ultima volta. Dall'ultima volta un sacco di cose erano diventate impossibili: allacciarsi le scarpe, appunto, portarsi un cucchiaio di fiocchi d'avena alla bocca senza versare tutto il latte sulla tovaglia, bere più di tre sorsi d'acqua filati senza sentire un sibilo preoccupante nel fondo della gola, avere una minima idea di chi fosse quella negra col foulard rosso sulla testa che tutte le mattine gli sollevava prima una gamba e poi l'altra, comprendere perché il suono della parola "papà" gli facesse arrivare allo stomaco uno strano senso di vertigine. Ma l'America no. Un'America migliore si poteva ancora fare. Un'America dove ai figli onesti fosse richiesto tanto coraggio e sacrificio ma non di sapere volare. Si infilò nella cabina numero 3, con la negra poco distante e sua moglie che aspettava sulla sedia a rotelle: la ragazza che gli esaminò i documenti elettorali aveva qualcosa come settant'anni di meno e, all'incirca quando Maurice provava a volare, lei rovesciava il suo primo barattolo di smalto al lampone sul parquet. Quando gli disse: "Prego Signore, di là", Cassius McLain Sr. rispose soltanto: "Maurice". Poi qualcuno gli domandò di mettersi in posa per una fotografia e lui si voltò annaspando, pieno di speranza. Probabilmente aveva capito un'altra volta fischi per fiaschi.

Adorava l'America. La idolatrava smisuratamente. Disse loro: "E' per il nostro Paese! E' per il nostro Paese!". Ma gli sbirri non l'ascoltarono e dalle ricetrasmittenti arrivò, preciso, sibilante, l'ordine di fermo. Vendeva bandierine a stelle e strisce senza licenza davanti a un seggio elettorale della Florida: "Dio benedica l'America! Dio benedica l'America!". Anche il suo sciovinismo era senza licenza e il suo accento ispano americano sapeva di mare, povertà e ferite rimarginate. Jorge Ferreira conosceva bene il significato di Oceano Atlantico, sapeva che l'acqua alta può avere denti e salite e discese e, sopra ogni cosa, comprendeva il significato di ciascuna di quelle singole 90 miglia dalla punta di Varadero fino a Miami, la distanza minima possibile tra la sua detestabile isla e la Terra che suo padre gli aveva infilato nel cervello finché aveva avuto fiato e forze per ripeterlo. Ci aveva scritto anche una canzone, che si chiamava proprio così, "90 millas": per cinque anni l'aveva composta segretamente e l'aveva provata in casa, con la sua strana voce in falsetto, alzando al massimo il volume della televisione per non farsi sentire da fuori. Con le manette ai polsi provò a sorridere ai due mastodontici sbirri, che erano americani, che sapevano fin dentro l'ultimo cromosoma cos'era l'uguaglianza e la libertà: ma ogni emozione sembrava infrangersi sulle lenti robuste dei loro occhiali da sole a specchio. Diciotto ore dopo, buttato in una stanza, con le braccia insensibili fino alle spalle, ricordò una frase che suo padre, che aveva combattuto alla Baia dei Porci dalla parte che riteneva più giusta, ripeteva sempre, tutte le sere, quando a casa conteggiava le banconote che aveva racimolato rifilando servizi dozzinali ai turisti. Sul tavolo, con la faccia di Fidel nel televisore - quella barba sotto al basco se la sarebbe ricordata per sempre - suo padre scuoteva la testa e non guardava negli occhi nessuno. Aveva le unghie sporche e le nocche consumate, come sfregate da una pietra pomice, e quando il conteggio del ricavato giornaliero si interrompeva sempre un momento prima che potesse diventare interessante davvero, suo padre diceva: "Borron y cuenta nueva". "Borron y cuenta nueva". Lo sussurrava tra i denti, come una parola magica sospesa sopra un pentolone di un alchimista, ancora e ancora, mentre riconteggiava il totale fino alla nausea. Punto e a capo, significava.

Adorava l'America. La idolatrava smisuratamente. Abigail Montessoy credeva che l'America fosse una questione sentimentale, nient'altro. Quando suo marito, l'ex tenente colonnello Sgt. Barnes Lupus, quella mattina si girò dall'altra parte del letto, dicendo col suo tono fermo, incontrovertibile, che non l'avrebbe accompagnata a votare, esattamente come quattro anni prima, lei non fece altro che tirargli le lenzuola fino a scoprirgli i piedi nudi e le gambe secche e poi lo lasciò lì, a strillare che questo non era una cosa matura da fare. Per niente matura. Abigail aveva 78 anni e tutto il diritto di fare precisamente quello che credeva fosse giusto per lei. Si preparò un caffè molto caldo mentre in camera da letto suo marito si sforzava di russare il più forte possibile per trasudare un disinteresse assoluto che anche quello, in un modo del tutto particolare, era americano. Camminò per due chilometri e mezzo con un passo fiero, appoggiando il suo bastone al centro esatto delle pietre. Respirò con tutta la forza dei propri polmoni avvizziti dal fumo l'aria perfetta americana, e salutò persone che non aveva mai visto prima, perché anche quello era americano, anche quello era una questione d'amore: acquistò una bandierina insieme a una barretta di cioccolato ai cereali e camminò lungo la distanza che la separava dalla sua destinazione. Si era messa fard, ombretto, un leggero rossetto rosa e la collana di sua madre, 45 cm netti di perle di Tahiti che sferragliavano contro i bottoni del suo cappotto pesante: Abigail Montessoy si sentiva viva perché poteva fare del bene per il proprio Paese, l'America sul cui suolo aveva messo a camminare diciannove figli e 114 nipoti. Pensò a suo marito nel letto, pensò alla sua perenne zoppìa. Pensò alle sue pantofole che strusciavano per casa, facendo quel rumore lì. Pensò che per quanti giri la Terra avesse ancora in destino di compiere, ebbene, ci sarebbe sempre stato ad abitarla un essere umano a cui lei, proprio lei, aveva accordato il dono dell'esistenza. Il bastone della donna si posò sull'asfalto e poi un'altra volta e un'altra volta ancora. Avrebbe espresso il proprio voto per amore dell'America e poi avrebbe comprato i fagiolini al mercato. Era esattamente quello che avrebbe fatto.

Adorava l'America. La idolatrava smisuratamente. Perché aveva i giochi, perché aveva i negozi di giocattoli più grandi del mondo, perché le costruzioni erano di un giallo luminoso che sembravano fatte con pezzettini di luna, perché ogni angolo era perfettamente sicuro, perché il giardino davanti alla sua casa era sempre verde e la cassetta della posta aveva una bandierina che scattava da sola verso l'alto quando qualcuno ci infilava dentro una busta, perché i suoi amichetti si chiamavano George Jr., Pauline Jr., Chris Jr., Montgomery III, perché c'erano le salite e le discese di San Francisco e le scale antincendio del Greenwich Village, perché suo padre guadagnava 180mila dollari l'anno e la madre altrettanto e lui poteva stare tutto il giorno con una baby sitter che si chiamava Angelica e che faceva cose stranissime con una carta di credito sul tavolino di cristallo del salone, perché la sua casa aveva scale e il suo cane una gigantesca cuccia di legno col il nome intarsiato sopra a caratteri gotici, perché suo fratello aveva 13 anni e sua sorella 49, perché nella sua cameretta c'era un baule autentico dei pirati con le spade e le pistole giocattolo e un doppio fondo in cui sua madre infilava alcune bottiglie di vodka moskovskaya, perché i poliziotti che passavano davanti alla sua villetta salutavano sempre toccandosi la visiera del cappello con le dita, perché alle 3.33 di notte squillava spesso il telefono e tutti si mettevano a urlare e poi la mattina, al tavolo della colazione, era come se non fosse mai successo nulla, perché aveva quattro bagni pieni di specchi, perché poteva guardare sul televisore i cartoni animati via cavo, perché a cinque anni sapeva fare lo spelling di "David Letterman" e perché David Letterman in persona gliel'aveva fatto fare, lo spelling, in diretta televisiva, durante un late show natalizio, perché c'era Dio che comunque avrebbe rimesso le cose a posto pure se andavano veramente male, perché sarebbe cresciuto senza lo spauracchio della guerra, grazie agli investimenti nelle armi, perché mamma e papà uscivano di casa senza dire una parola e rincasavano quando Angelica lo aveva già rimesso a letto, perché quella mattina in cui tutti gli adulti d'America andavano a cambiare il mondo con le bandierine alla mano e i cuori veloci, per lui era soltanto martedì.

Yes, we’ve done.

Yes, we wanna can

Prendete una giraffa.

Temo di aver capito questo e cioè che la violenza, da un punto di vista squisitamente estetico, è bellissima. Da giorni, ormai, guardo i video degli scontri di Piazza Navona. Quelle scene mi hanno letteralmente rapito, generando in me una sensazione sempre più strana, finché a un certo punto ho pensato che quel tipo di violenza è stupenda perché gode di un'istanza estetica unica. I volti tirati sono bellissimi, la concentrazione, perfino, perché per perpetrare violenza - almeno quella di piazza, intendiamoci, è di quella che sto parlando - ci vogliono grande concentrazione e passione, due elementi che sono stati propri dei guerrieri o dei grandi eserciti di un tempo e che, non a caso, esprimono indiscutibile bellezza.

Di sicuro la violenza è struggente. Perfino i fascisti di Blocco Studentesco che serravano le fila davanti ai bar del cazzo di Piazza Navona, quelli che infinocchiano i turisti con birre a 12 euro, li ho trovati bellissimi a vedersi e mi sono sorpreso, mandando avanti e indietro le immagini, ad invidiarli. Ho invidiato il loro coraggio, la loro unione, sì, soprattutto quella, l'unione, le grida univoche e decise. "Non indietreggiate!", "Che nessuno avanzi! Non siamo qui per provocare!": questo fomento mi ha fatto cambiare posizione sulla sedia, colpito, stordito, improvvisamente, da tanta ammirazione estetica, laddove una persona normale, attraversata da pensieri normali, avrebbe dovuto provare orrore, dissenso o, meglio ancora, fermarsi ad analizzare solo l'istanza ideologica di quanto stava vedendo, non quella estetica, perché quella estetica, spesso e volentieri, come la commozione, l'idolatria o l'eccitazione sessuale, può suggerire pensieri sbagliati, falsati, di parte o, come in questo caso, peccaminosi addirittura.

Ocio: non mi sento particolarmente maschio o aitante nel dire che trovo questo tipo di violenza "di piazza" bellissima. E' più o meno il tipo di emozione che in voialtri potrebbe suggerire la visione di una giraffa durante un Safari: un meccanismo del tutto naturale. Prendete una giraffa. Se a voi piacciono le giraffe - e anche a me piacciono, intendiamoci, la prima giraffa che vidi allo zoo, da bambino, con quella lingua blu lunghissima, mi comunicò una serie di emozioni talmente vasta che la ricordo tutt'ora, dall'orrore per quell'organo molliccio e sproporzionato dentro la bocca, e di un colore pazzesco per di più, all'amore per il collo inverosimilmente lungo, maculato e alieno -, se a voi piacciono questi animali buffi e grandi, allora a me piace, e da morire, l'istanza estetica della violenza. Siamo pari, no? Tra l'altro, mi viene da riflettere, se a voi piacciono le giraffe, è molto probabile che vi piaccia guardare le giraffe e per fare questo, poter guardare le giraffe in santa pace da vicino, anche voi, di fatto, avete avallato una violenza, la violenza di andare da una giraffa e catturarla come King Kong, portarla nel cosidetto mondo civilizzato, nutrirla di croccantini e piazzarla dietro uno steccato. Perciò questo fatto di mettersi sempre lì a dire nooooo allaaa violeeenzaaaaaa, secondo me, è un modo come un altro per dire beebopalula o kjslksdjfldkfj; insomma, occorrerebbe forse rifletterci per più di quei tre secondi, a proposito della violenza, ogni tanto, ed è proprio quello che ho fatto io, osservando ad libitum le immagini di Piazza Navona. Ho riflettuto sulla violenza di piazza, fino a capire perché mi stesse dando tante emozioni. In effetti è molto semplice: la trovavo esteticamente rilevante quanto una tela di Caravaggio. (sarà un caso che i più grandi quadri dell'umanità o sono rappresentazioni religiose o sono rappresentazioni di battaglie?)

Ogni volta che vedo giovani incazzati e violenti, dentro di me balugina un sentore di nuova speranza. Mi metto lì a pensare che, dopo tutto, come già diceva qualcun altro ben più saggio e importante di me, è stata proprio la violenza, nel corso dei secoli, a sistemare le faccende più intricate degli uomini. Mica la pace. La pace è solo una conseguenza della violenza, non un'alternativa. Proprio come una giraffa dietro uno steccato, idolo e sogno di tanti bambini, è la conseguenza di una violenza e una terriricante coercizione avvenuta precedentemente a migliaia di chilometri di distanza. Si potrebbe fare un discorso simile per le Nike che abbiamo ai piedi o per il Nesquik che mettiamo nel latte la mattina: la violenza sta ovunque, atrocemente, però è soltanto quella dei grandi primi piani distorti e immortalati dai giornali che crea scompiglio nelle anime dell'elettore medio; è soltanto l'icona di un volto sanguinante nella folla che brandisce una mazza o un casco per la difesa di un pezzo di territorio che fa fare "no" con la testa ai lavoratori dentro ai tram. Sono solo i tifosi che si assiepano sotto le curve a scatenare l'ipocrita. Giusta o meno che sia e, probabilmente, non dico di no, la violenza è strategicamente una cazzata, resta la questione della Bellezza.

D'altra parte, sentite: siamo bravissimi a frenare ogni capacità critica di fronte a un sacco di altre situazioni, una giraffa in gabbia, appunto, il nuovo modello di Nike, gli abusi certificati della Nestlé; perfino dietro una rosa rossa di quelle che i bangladesi vendono a due euro nei centri storici delle città, perfino lì dietro si nasconde una scia di sangue, abusi, sfruttamenti umani e ambientali che farebbero rabbrividire il nazismo - lo so perché ci ho fatto un documentario per Rai Educational - eppure il nostro spirito critico si fossilizza, in questi casi, non agisce, ci limitiamo all'istanza estetica della cosa, cioè un Luminoso Fiore Rosso che faccia luccicare gli occhioni già belli della nostra spasimante, una graziosa giraffa la domenica mattina, eccetera eccetera, e andiamo avanti lungo i binari piccolo-borghesi della nostra proficua giornata, sentendoci al riparo dallo sguardo di Dio Onnipotente.

Invece, bum, guarda un po', una spranga sollevata in cielo ci sconvolge, le urla dei facinorosi da stadio ci perplimono e ci fanno immediatamente fare un passo indietro per dire: ah no! Io non sono come loro!, e il bello è che lo diciamo andando via camminando su scarpe Nike intessute da undicenni vietnamiti e poggiamo i piedi sull'asfalto dove i nostri Suv fanno più morti dell'eroina. Semmai l'indomani butteremo delle pile alcaline dentro il secchio della carta straccia. Provate anche a voi a mettervi davanti a questo tipo di violenza - la violenza di piazza, quella dei centri sociali e di Blocco Studentesco, o scegliete voi quale - attivando, però, solo la capacità estetica di giudizio, non quella ideologica; ovvero mettetevi davanti a questo tipo di violenza proprio come vi porreste nei confronti di una giraffa, di un paio di Nike o di una rosa rossa e giudicate da voi l'effetto che fa. Poi, giuro, avrete di nuovo il permesso di annodarvi al collo il bel guinzaglietto da Brave Persone che vi siete scelti per fare bella figura davanti al prete la domenica mattina. In fondo siete stati battezzati.

Scherzi a parte

Tutta una stagione di Formula 1 condensata in questa gif, che riassume i 40 lunghissimi secondi tra l'arrivo dello sfigatissimo Massa e il sorpasso di Hamilton sull'Ispettore Glock. La faccia del padre di Felipe è già leggenda.

Buffet

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trovate a Londra

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Camera Ciccsoft

Si comincia!

Spot

Vieni a ballare in Abruzzo

Fornace musicante

Cocapera: e sei protagonista

Dicono di noi

Più simpatico di uno scivolone della Regina Madre, più divertente di una rissa al pub. Thank you, Ciccsoft!
(The Times)

Una lieta sorpresa dal paese delle zanzare e della nebbia fitta. Con Ciccsoft L'Italia riacquista un posto di primo piano nell'Europa dei Grandi.
(Frankfurter Zeitung)

Il nuovo che avanza nel mondo dei blog, nonostante noi non ci abbiamo mai capito nulla.
(La Repubblica)

Quando li abbiamo visti davanti al nostro portone in Via Solferino, capimmo subito che sarebbero andati lontano. Poi infatti sono entrati.
(Il Corriere della Sera)

L'abbiam capito subito che di sport non capiscono una borsa, anzi un borsone. Meno male che non gli abbiamo aperto la porta!
(La Gazzetta dello Sport)

Vogliono fare giornalismo ma non sono minimamente all'altezza. Piuttosto che vadano a lavorare, ragazzetti pidocchiosi!
(Il Giornale)

Ci hanno riempito di tagliandi per vincere il concorso come Gruppo dell'anno. Ma chi si credono di essere?
(La Nuova Ferrara)

Giovani, belli e poveri. Cosa volere di più? Nell'Italia di Berlusconi un sito dinamico e irriverente si fa strada come può.
(Il Resto del Carlino)

Cagnazz è il Mickey Mouse dell'era moderna e le tavole dei Neuroni, arte pura.
Topolino)

Un sito dai mille risvolti, una miniera di informazioni, talvolta false, ma sicuramente ben raccontate.
(PC professionale)

Un altro blog è possibile.
(Diario)

Lunghissimo e talvolta confuso nella trama, offre numerosi spunti di interpretazione. Ottime scenografie grazie anche ai quadri del Dovigo.
(Ciak)

Scandalo! Nemmeno Selvaggia Lucarelli ha osato tanto!
(Novella duemila)

Indovinello
Sarebbe pur'esso un bel sito
da tanti ragazzi scavato
parecchio ci avevan trovato
dei resti di un tempo passato.
(La Settimana Enigmistica)

Troppo lento all'accensione. Però poi merita. Maial se merita!
(Elaborare)

I fighetti del pc della nostra generazione. Ma si bruceranno presto come tutti gli altri. Oh yes!
(Rolling Stone)

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