NUMERO DUE- 29 GIUGNO 2000

 

ALBATROS

 

PAGINA  2-  INTRODUZIONE

PAGINA  3-  FUGA DA ALCATRAZ

PAGINA  4-  DIARIO DI AUSCHWITZ

PAGINA 10- MENGELE

PAGINA 12- DANUBIO – MAUTHAUSEN E MENGELE

PAGINA 15- CANZONE DEL BAMBINO NEL VENTO

PAGINA 16–NONGIO

PAGINA 17- COSA SUCCEDE SE HAI DUE MUCCHE

PAGINA 19- LA PAROLA CILE

PAGINA 28 – L’IMPERO DI BILL GATES?

PAGINA 29 – POESIE

PAGINA 32 – I DIRITTI NEGATI

PAGINA 33 – RECENSIONI

PAGINA 37 – IL PUNK NON E’ MORTO

PAGINA 39 – RICORDATI DI RICORDARE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Con un lieve ritardo, ma comunque ecco ci di nuovo qui, per presentare un nuovo numero di questo nostro giornale che sta coinvolgendo davvero tanti. Oramai di mio e di Claudio c’è ben poco, continua ad arrivarci materiale e ne abbiamo già talmente tanto che anche il numero tre è bello che finito. Abbiamo deciso di accantonare il Cile per metterlo appunto a settembre e mettere così anche il pezzo che avevo previsto su Victor Jara. In questo numero mancano un sacco di cose (il mito musica, per esempio, oppure il pezzo dedicato al personaggio che ha cambiato il mondo) ma ci sono cose nuove e soprattutto finalmente si sente la vostra voce, forte e chiara, vedo che il progetto vi sta appassionando e spero che la cosa continui per molto e molto tempo ancora!! Vi giuro che a volte mi viene voglia di non scrivere più, semplicemente perché il tempo non è quasi mai abbastanza, anzi, e poi ti metti a pensare “ma chi me lo fa fare, in fondo”? Poi però riceviamo lettere di consenso, persone che ci dicono che siamo dei grandi… e anche se non credo che tutto questo sia meritato.. bhe, grazie e andiamo avanti. Pensate siamo al numero due, ossia tre numeri pieni zeppi di nostre parole e idee, senza pubblicità di sorta o condizionamenti. Solo noi, con le nostre cazzate, la nostra voglia di scrivere di quello che ci fa indignare e ci piace. E poi, oltre ai tre numeri e ai lettori affezionati (e ci sono… Elisa è la prima!), abbiamo un sito internet (basta andare poi su www.lunanet.net e cliccare su Albatros) e vari progetti da portare avanti. E poi a fine luglio il primo raduno, anche se sarà una cosa piccola piccola e se saremo dieci persone sarà già tanto! E il prossimo anno, con un possibile progetto di capannone-complesso-ricavatoinbeneficenza da realizzare… Tante cose in mano a ragazzi più o meno giovani, ma tutti quanti con una voglia di cambiare immensa. Quindi si continua, si va avanti, fino a quando non avremo più nulla di cui parlare, fino a quando ci renderemo conto di essere solo degli illusi. Ed io spero vivamente che questo non accada mai e poi mai perché vorrebbe dire che nemmeno noi crediamo più nella nostra “coerenza”, nelle nostre “utopie” che, di conseguenza, diventerebbero dei fuochi fatui… Questo non dovrà mai accadere, lo sapete.

Continuate quindi a scrivere, a mandare articoli su tutto quello che vi interessa. Noi diamo sempre la precedenza a voi, e se in un numero non verrà pubblicato sarà fatto sull’altro. Senza censura, senza metterci nulla di nostro. Solo cercando di essere noi stessi ancora una volta.

Come al solito, ecco i nostri indirizzi:

 

Alice Suella

Via Bologna 8

Tronzano Vercellese (VC) 13049

Suella@santhia.alpcom.it

 

Claudio Torreggiani

Via Ferri

Villa Sesso (RE) 42020

Claudio.torreggiani@libero.it

 

Buona lettura e alla prossima

 

Alice&Claudio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FUGA DA ALCATRAZ

 

Oramai sono iniziate da un bel pezzo le puntate televisive di Alcatraz. C’è chi è soddisfatto, chi invece non capisce affatto con che criterio un genio come Diego Cugia abbia potuto creare una così ignobile opera, dopo l’entusiasmo per la versione radiofonica. Personalmente sono contenta del risultato, anche se confesso di avere visto solo le prime puntate perché all’ora della trasmissione (23:30, raidue mi pare) di solito sono al telefono con una persona carissima e quindi sinceramente non mi sogno nemmeno di chiudere per una trasmissione (ho imparato da Jack che le amicizie e i contatti con le persone sono la cosa più importante, quindi..), ma ciò che ho visto mi ha convinta. Le immagini calcano ancora di più su certi concetti, già forti di per se, ma che con una spinta in più diventano una vera bomba a orologeria. Ci sono stati però parecchi problemi per la messa in onda della trasmissione. Censure varie, litigi. Evito i commenti. Vi lascio questa volta, invece del solito pezzo di Jack, con una delle poche dichiarazioni di Cugia.

 

Vi ringrazio ancora per tutta questa marea di solidarietà. Vorrei però evitare ingiustizie e generalizzazioni. Che Jack Folla fosse scomodo lo sapevano anche in RAI. E la RAI non va considerata tutta marcia, come qui molti fanno, perché se così fosse, per esempio, non avreste certo mai visto neanche una puntata di  Alcatraz. E la radio ce la dimentichiamo? Nessuno ha mai messo il bavaglio, MAI. E io queste cose devo dirle, perché le generalizzazioni sono una manifestazione di intolleranza che non condividiamo. Io non so cosa sia successo da un certo punto in poi. Lo "share", certo, e poi? Quello che so, e che DEVO dire, onde evitare ingiustizie, è che Pier Luigi Celli, direttore generale della RAI, ha voluto Alcatraz, e l'ha difeso fino all'ultimo. E potrei dire lo stesso di Freccero, perché dopo aver letto il libro mi ha chiamato lui. E così di molti altri, dirigenti e funzionari e tecnici della RAI che ieri erano commossi all'ultima messa in onda. Questa verità è dovuta, perché non ci siano equivoci se non in chi li crea. Il nemico non è LA RAI o Celli, ma ...Ragioniamo su questo "ma...", o sul perché si arriva a sopprimere il programma quasi come un sollievo generale, però ammettiamo anche -io per primo- che se il programma l'avessero seguito un po' più di persone, questo non sarebbe accaduto...e quindi stiamo pagando anche il fatto di non essere scesi a compromessi. Per esempio: se avessi fatto interpretare Jack Folla a un famoso attore che avreste detto? Fanculo Diego, vero? Beh, avremmo avuto probabilmente più ascolti. E dato meno problemi a chi in RAI ci credeva. Ma noi abbiamo scelto la "quasi" purezza, o meglio, tutta la purezza possibile. (E voi v'incazzavate per i titoli di coda...Nessuno vi ha detto che altrimenti i vestiti di Francesca li pagano gli abbonati? E su...è il male minore)E molti telespettatori hanno acceso e si sono rotti i marroni, perché era una soggettiva di uno sconosciuto che farneticava. Noi sappiamo che "diceva" ma per loro era solo un pazzo. Che facciamo con questi milioni di telespettatori? Gli spariamo? Io non ci sto. Insomma, non abbiamo bisogno di eroi né di martiri. Vorrei fosse ben chiaro questo concetto a tutti. E statene certi, non lo faccio "per la pagnotta", ma perché -ribadisco- le generalizzazioni non mi sono mai piaciute e tantomeno le semplificazioni. Primo: sui gusti della gente non si discute. Secondo: C'è una parte della RAI che ha molta intenzione di cambiare, e se alla quarta puntata ci fermiamo non è colpa loro. So che mi attirerò molte critiche con questo intervento, ma non è giusto che altri ci rimettano, quando non c'entrano. Né io ho alcuna intenzione di cavalcare questa marea di giusta incazzatura generale. Nessuno qui dentro strumentalizza nessuno.

 

Alice

 

 

 

 

 

Ecco qua, per non chiudere per niente il discorso “campi di concentramento” il Diario di una di noi, Laura, che ha visitato Auschwitz pochissimo tempo fa. L’ho letto è mi sono venuti i brividi, benché sia un semplice resoconto, senza troppi commenti melensi e drammatici.

 

 

5/7/1999

 

Sono passate da poco le 14 di questo lunedì, abbiamo appena finito di consumare i nostri pranzi a base di brodini e verdure lesse che tanto ci fanno rimpiangere la nostra cucina italiana, e stiamo per prendere il pullman. Veramente i nostri ospiti avevano per noi dei programmi completamente diversi: siamo stati noi a tempestarli di fax per convincerli a non proporci la passeggiata sui Beskidy, le montagne del papa, ma a portarci ad Auschwitz. Per fortuna il concerto è passato, altrimenti qualcuno aveva già annunciato che non sarebbe venuto, temendo da una parte di stancarsi, dall’altra di restare troppo scosso. Non so cosa aspettarmi da questa visita, anche se ho letto parecchio materiale sui lager: spesso questi posti vengono restaurati e perdono parecchio l’atmosfera originaria. Magari va a finire come a Lourdes, dove ho sempre pensato che della parte spirituale di tutta la faccenda sia rimasto veramente poco. Anche nel resto del gruppo si coglie la stessa aria di partenza per una gita, con parecchia curiosità riaccesa da “La vita è bella”, che da questo punto di vista non è stato affatto inutile. Per il resto, si vuole sapere se almeno qui avremo una guida che parli italiano (però Magda ci assicura che, in caso contrario, lei tradurrà per noi). E’ un pomeriggio afoso, e qui nella parte posteriore del pullman, luogo dove dalla tradizione consolidata dai tempi delle gite scolastiche vanno a sedersi quelli che hanno voglia di fare casino, cerchiamo di tirarci su con piccoli gavettoni d’acqua presa dalle bottiglie di una cassetta che ci hanno dato in albergo, già troppo calda per poterla bere, ma che così ha ancora un minimo di effetto refrigerante. Mi tengo un po’ distante da questa allegra confusione, troppo persa tra i miei pensieri per esserne coinvolta più di tanto. La mia attenzione si rivolge alternativamente al finestrino, dove scorre sotto i miei occhi il paesaggio della campagna polacca, che è lo stesso di ieri, ma oggi mi sembra più spoglio e più arido, e al sedile davanti al mio, da dove spuntano i riccioli di Enrico, anche lui estremamente silenzioso e pensieroso, nonché impenetrabile nelle sue emozioni. Niente di nuovo, certo, ma ieri sera mi ha detto che attendeva questo pomeriggio e questa visita almeno quanto vuole andare alla ricerca dell’urna del cuore di Chopin a Varsavia, e detta da lui…

Solo un’altra persona sembra condividere lo stesso stato d’animo meditabondo e taciturno. E’ Roberta, seduta di fianco a me, che mi domanda, ma come fra sé e sé: “Con quale coraggio vengono a visitare Auschwitz anche i turisti tedeschi? Non si vergognano, di tutto quello che è successo lì, per colpa loro?”. Alla mia obiezione che in realtà in Germania, all’epoca, nessuno sapeva davvero cosa accadesse all’interno di quelle mura (e chi comandava i campi si guardava bene dal diffondere simili notizie!), che ufficialmente erano posti dove si lavorava e si produceva, lei ribatte: “Ma allora come sono riusciti a non far capire niente per tutto quel tempo?” Nessuna risposta…

Per il resto, il viaggio è monotono, lungo strade deserte, fra vaste distese d’erba con pochissime case e qualche palo della luce in mezzo, tutto questo almeno fino a quando, trascorsa quasi un’ora da quando siamo partiti, dalla strada ci compaiono davanti, non annunciate, delle schiere di costruzioni rossicce in mattoni che invece di spezzare il “deserto” lo rendono ancora più inquietante. I gruppi di casottini sono recintati dallo stesso filo spinato visto nei libri di storia, per cui non possiamo più permetterci di dubitare del fatto che siamo arrivati a destinazione. Il pullman ci scarica in un piazzale, davanti a un edificio probabilmente più recente rispetto al resto del campo, affiancato da un paio di altre piccole costruzioni che si rivelano essere un negozio di souvenir e un bar. Ho bisogno di una decina di francobolli per spedire le mie cartoline, così, visto che prima di iniziare la visita dobbiamo aspettare che Magda vada a recuperarci una guida, mi allontano per andarli a cercare. Sulle prime, sembrerebbe un chioschetto qualsiasi, con le scatoline gialle dei rullini Kodak, le cartoline, le guide multilingue, i gadget con il nome del posto dove ci troviamo… Sì, ma sui gadget c’è scritto solo Oswiecim, il nome polacco, come se questo volesse significare l’orgoglio di aver sottratto per sempre questi territori ai tedeschi. A guardare bene, non sono poi tanto “normali” nemmeno le cartoline: c’è lo spazio per l’indirizzo, ma non quello per scrivere, sostituito da note trilingue (polacco, inglese e tedesco) sulle immagini riprodotte. Ma chi vorrebbe spedire una cartolina con una foto dei forni crematori, oppure la foto di una rosa infilzata al filo spinato? Tutt’al più qualche buontempone che abbia voglia di scherzarci su (esistono… accidenti, se esistono!), non certo il normale visitatore dotato di un minimo di sensibilità e buon senso. E le videocassette e le guide hanno l’aria di contenere non le immagini di questo luogo com’è adesso, ma solo crudi documentari sulla vita nel campo dal 1940 al 1945. Elena mi raggiunge per procurarsi un rullino e mi trova a osservare perplessa le cartoline. “Sai che mia suocera negli anni della guerra è stata anche lei prigioniera in un lager? Ma… Laura, mi stai ascoltando?”. No, sto solo tentando di selezionare qualche cartolina da portarmi via… Troppo tardi: da fuori arriva un richiamo. C’è la guida, e non possiamo attardarci più di tanto. Forse tornerò qui all’uscita, ma adesso non mi resta che correre scansando i rami dei numerosi salici che inverdiscono il piazzale e raggiungere il resto del gruppo sotto il portico dell’ingresso al museo. Ho solo una leggera esitazione dovuta a una riflessione che mi è venuta mentre scendevo dal pullman. Chi potrebbe mai dire, vedendo da qui il complesso di Auschwitz, che quasi sessant’anni fa in questo posto si consumavano tutte le atrocità di cui abbiamo letto sui libri o visto al cinema? Eppure sembra un luogo tanto sereno, con questi salici verdissimi e potati in modo che una persona di statura normale possa passarci comodamente sotto, le panchine su cui alcuni di noi hanno sostato prima che ci venisse dato il permesso di entrare, un gaio cinguettio di uccelli, le casette rossicce dietro l’edificio del museo, un pullman turistico che un cartello annuncia diretto a Birkenau come se “Birkenau” fosse un luogo per gite domenicali come da noi Anzio o Terracina. Ma noi non possiamo lasciarci ingannare: le abbiamo già viste dalla strada, quelle casette, l’abbiamo già visto quel filo spinato attraverso il quale centinaia di migliaia di esseri umani hanno smesso di essere tali per diventare strumenti di lavoro e carne da macello, e che anche se ne sono usciti vivi è stato per affrontare una vita in cui la vita precedente risultava cancellata, quasi per ripartire da zero. E sono sicura che anche noi, almeno per un intervallo di tempo limitato, non riusciremo a restare del tutto quelli di prima, una volta usciti di qui. Oltre alle numerose foto che ci accolgono fin dalla porta d’ingresso, salta all’occhio un cartello in diverse lingue che non ricordo di aver mai visto in nessun altro museo: qui si sconsiglia la visita, nonché la visione del documentario, ai minori di 14 anni. La cosa mi preoccupa non poco: cosa ci attende, qui, di ancora più sconvolgente e impressionante di tutto ciò che ci è stato raccontato? La guida è un uomo sulla sessantina, che parla polacco, ma non abbiamo bisogno di capire quello che dice per renderci conto che l’oggetto davanti al quale ci troviamo e il cui cartello, colpa della mia bassa statura, non riesco a leggere, è il monumento alle vittime di Auschwitz. Si tratta di un’urna cineraria di vetro trasparente che per la sua forma mi fa pensare a una clessidra. Le ceneri dell’Internato Ignoto… o forse quelle di più di un internato. “Ricordati che sei polvere, e polvere ritornerai”: e chi se lo dimentica? Il problema è che qui il ritorno alla polvere è stato bruscamente accelerato, e che per un pugno di polvere che in questo monumento rappresenta molto più di un ammasso di molecole, tonnellate e tonnellate di cenere sono state sparse al vento, e magari sono finite a concimare i campi qui intorno, ad attaccarsi sulle scarpe dei visitatori forse ancora oggi… Intanto la guida, con Magda che ci traduce tutto diligentemente, racconta la storia del campo e in qualche modo ci anticipa ciò che stiamo per vedere. Tanto per cominciare, il campo, che rimase operativo dal 1940 al 1945, era diviso in tre parti, Auschwitz dove ci troviamo ora, Birkenau, di superficie molto più grande (forse quello che abbiamo visto dalla strada), come evidenzia una foto di come apparve agli aerei, dove potremmo recarci se avessimo tempo, ma non è il nostro caso (e poi non so fino a che punto ne avremmo voglia), e Monowitz, il più recente e dall’intervallo di attività più breve. In tutte le fabbriche di morte analoghe esistenti in Europa, se non ho capito male (già troppi pensieri per la testa: seguo poco…), sarebbero morti in circa 5 milioni, a conti fatti il 12% dei morti della Seconda Guerra Mondiale. E tutto questo senza calcolare quelli che sono, per così dire, morti nell’anima, e forse ancora al giorno d’oggi si risvegliano in preda agli incubi, come ricordo di aver letto tempo fa in una lettera scritta a un giornale. Da prassi, si entrava qui dentro con le proprie valigie, scaricati da treni in cui il paragone con i carri bestiame risulta perfino offensivo per questi ultimi, ma subito se ne veniva privati. Non dubito che ognuno, potendo portarsi dietro solo una valigia, prima di partire, se ne aveva avuto il tempo, avesse scelto accuratamente i pochi oggetti da metterci dentro. La falsa promessa era che si sarebbe riottenuto tutto quando fosse terminato il tempo da trascorrere qui. Insomma, non solo il dolore di aver dovuto abbandonare la propria patria, essere separati dai propri familiari, ma anche l’illusione che un giorno o l’altro se ne sarebbe venuti fuori. Invece le poche cose riutilizzabili (per primi scarpe e indumenti, che sarebbero stati sostituiti dalle casacche a righe che abbiamo visto in tante foto) finivano ammassate in enormi magazzini, tanto estesi che il tentativo di incendiarli e distruggere tutto, così come i documenti, quando il campo venne chiuso, non andò a buon fine. In caso contrario, buona parte di questo museo, che comunque non contiene altro che una minima parte di ciò che era stato salvato, non esisterebbe, o almeno raccoglierebbe qualcosa di diverso. Abbandoniamo questa stanza per raggiungerne un’altra molto più vasta, in una vetrina della quale la guida ci indica quelli che a prima vista potrebbero sembrare dei barattoli di vernice, ma in realtà sono i contenitori della sostanza che, opportunamente riscaldata, produceva il gas. Sembra innocua ghiaietta grigia, o forse concime, comunque qualcosa di non particolarmente pericoloso. Tutta apparenza, certo, così come molti altri particolari e fatti avvenuti qui grondano finzione, e ciò che più sconvolge è sicuramente il fatto che per arrivare alla produzione di questo materiale siano stati compiuti degli accuratissimi studi di chimica, anzi addirittura prima di arrivare a questo prodotto ne erano stati provati altri due o tre tipi. Certo che ai tempi della Seconda Guerra Mondiale non ci si voleva proprio far mancare niente: i migliori fisici per gli studi che hanno portato alla realizzazione della bomba atomica, i migliori chimici per il miglior gas qui ad Auschwitz e le migliori armi chimiche in ogni parte del mondo, i migliori medici per esperimenti su cavie umane… Non si vuole risparmiare nessuna emozione al visitatore, mostrandogli quanto compare nella prossima vetrina, un plastico che descrive non solo la struttura della camera a gas, ma anche il percorso che portava i prigionieri a tornare polvere, come si accennava prima. Fra i muri ricostruiti in scala sono state collocate delle figure umane, che in superficie si liberano degli abiti e in fila si avviano al livello inferiore, dove compaiono altre figure ritratte in pose strazianti, contorte e ammassate le une sulle altre. Dal gruppo vengono silenziosi moti di disgusto e di compassione più o meno in uguale misura. Come arriveremo alla fine della visita, se già adesso ci si stringe la gola? Sarà meglio tentare di assumere un atteggiamento distaccato o lasciare che le emozioni abbiano libero corso? Prima di consentirci di trovare una risposta, la guida ci invita a lasciare questo edificio “preliminare” per avviarci al campo vero e proprio. Ecco davanti a noi il famoso cancello sovrastato dalla scritta amaramente ironica “Arbeit macht frei”, fusa in una specie di architrave di ferro verniciata in nero. Forse somiglierà poco a quello che aveva in mente Dante, ma sono proprio sue, le parole che mormoro varcando con un sospiro mal trattenuto questo cancello: “Per me si va nella città dolente, per me si va nell’eterno dolore, per me si va tra la perduta gente… Lasciate ogni speranza, o voi che entrate…”. Recito a memoria a mezza voce, ma non abbastanza piano da non essere udita da Massimo che è a due passi da me e di cui intuisco uno sguardo perplesso dietro le lenti da sole. Del resto, è come se nell’attraversare questo cancello avessimo perso di colpo la voce, un po’ come accade quando si entra in un luogo sacro, ma il chiacchiericcio di quando siamo entrati si era spento da un pezzo, ora sostituito dallo scricchiolio della ghiaia sotto le scarpe. Stiamo percorrendo un vialetto dritto che passa attraverso due file di block, e quello che ci circonda è il paesaggio costante che siamo destinati a vedere finché non usciremo di qui. Il percorso che ci sarà proposto è in fondo quello ideale (si fa per dire…) degli internati: l’ingresso dal cancello principale e l’uscita dal forno crematorio, per fortuna sulle nostre gambe. Non si vede altro che block di mattoni grigi o rossicci, alberi, credo pioppi, lungo i vialetti che si incrociano ad angolo retto, torri di guardia agli angoli, muri e filo spinato che sappiamo non essere più percorso da corrente elettrica, ma non per questo fa meno paura. Verso la fine di questo vialetto, un gruppo di circa una ventina di persone sosta sul bordo della strada. La prima impressione è che stiano ascoltando una guida che dà loro spiegazioni, ma avvicinandoci ci accorgiamo che in mezzo a loro c’è un uomo piuttosto anziano svenuto e steso per terra, con un paio di persone, suppongo medici, che gli stanno prestando soccorso. Ancora Dante: “Non ti curar di lor, ma guarda e passa”. Non è per indifferenza che non ci fermiamo a indagare, ma solo perché saremmo d’impaccio. Si risolleva un lieve mormorio carico di punti interrogativi: sarà stato il caldo o l’emozione a tramortire il poveretto? E si sarà ripreso, nel frattempo? Ma la guida ci invita a entrare in uno dei block, senza anticiparci niente di ciò che stiamo per vedere. Mi basta la scritta di un cartello in inglese sulla porta di una stanza per avvertire una nuova stretta alla gola, dopo quelle da cui stavo tentando a fatica di riprendermi (“Exploiting the corpses”), ma non è ancora abbastanza, rispetto alla vista di una vetrina che occupa un’intera parete. Sulle prime si direbbe che al di là di quel vetro sia stato tosato un gregge di almeno un centinaio di pecore, ma il colore, un tono di grigio a tratti cenerino e a tratti più scuro dice che si tratta di qualcos’altro, e una treccia gettata con finta casualità in cima a una montagnola di quella lanugine conferma che si tratta di capelli umani. Cosa se ne facessero, basta guardare questa scena per capirlo: sembra lana, e come tale veniva utilizzata per produrre tessuto e oggetti di vario genere, qualcuno dei quali è conservato in una vetrina poco distante. Si dice che dei maiali non si butta niente, aforisma riadattato qui in modo così macabro e che impedisce di dimenticare cosa potesse diventare un uomo qui dentro. Niente più che un attrezzo da lavoro, una cosa da sfruttare finché fosse rimasta efficiente e poi da buttare via e smaltire come un rifiuto in una discarica. Dopo questa vista agghiacciante, durante la quale la comitiva è nuovamente precipitata nel silenzio e la guida non ha più ragione di parlare perché non c’è proprio nulla da commentare, veniamo dirottati in un’altra stanza, dove invece sono raccolti oggetti personali degli internati, divisi per categorie. Nella prima che mi ritrovo davanti c’è un mucchio di occhiali, poco distante, in un’altra vetrina sono esposte alcune stuoie di quelle che gli ebrei usano per le loro preghiere. Oggetti di uso quotidiano, apparentemente privi di valore, i primi utilissimi (e parlo da discreta miope che sa cosa vuol dire non trovare in giro i propri occhiali!), i secondi simbolo della cultura e della religione di un popolo disperso in ogni parte del mondo, ma che è stato sempre capace di ritrovarsi nei suoi riti, nelle sue feste religiose, nella sua lingua, nelle sue canzoni e nei suoi candelabri a sette braccia, ovunque riprodotti nella stessa forma. E dire che nella storia ci sono stati popoli che si sono quasi suicidati nelle guerre civili, pur essendo geograficamente molto vicini… Una vetrina delle stesse dimensioni di quella degli occhiali raccoglie dei pettini. Ecco, questi oggetti purtroppo non servivano più a nessuno, ricordando la vetrina che abbiamo visto poco fa. Non si può certo dire che tutto ciò sia consolatorio… Per un paio di block, il genere di “spettacolo” che ci passa sotto gli occhi è questo: vetrine larghe come pareti intere e profonde come stanze, dietro cui si vedono cataste di oggetti che danno l’idea da una parte della quantità di persone che sono passate di qui, dall’altra del loro sfruttamento con ogni mezzo. Una delle prime contiene scarpe, e riporta alla memoria, o meglio all’immaginazione, visto che per fortuna nessuno di noi ha i mezzi per ricordarlo direttamente, una scena descritta anche da Primo Levi in “Se questo è un uomo”, quando i nuovi arrivati al campo dovevano cercare e trovare rapidamente in mucchi del genere due scarpe, ovviamente spaiate, che andassero bene per loro. Dopo il primo impatto con la montagna di scarpe nel suo complesso mi soffermo sui particolari. Scarpe di ogni modello e colore, in ogni stato di conservazione, da donna e da uomo, e… Di fianco a me, mi arriva all’orecchio un lieve singulto. Mi volto e vedo Elena, con gli occhi lucidi e le lacrime che scorrono, mentre con la voce vibrante sospira: “Criminali…” Non le chiedo niente: ho già visto da me che la sua attenzione si è fermata su un mucchio di scarpe di piccole dimensioni. Scarpe da bambini… e il ricordo della strage degli innocenti non è retorico, è spontaneo! I bambini che non avevano l’età e le forze per lavorare, qui venivano eliminati già al loro arrivo, così come anziani e invalidi. E’ a questi ultimi che viene da pensare davanti a un’altra vetrina, che mostra una lugubre collezione di stampelle e protesi, i cui proprietari non saranno rimasti qui più del tempo necessario per spogliarli di tutto e mandarli a morire. E quanto saranno rimasti qui e che fine avranno fatto i proprietari delle tazze di metallo che occupano l’intero pavimento di un’altra vetrina? E il bimbo a cui apparteneva il biberon dalla bottiglia di vetro rotta che ho visto in una piccola teca all’interno della stessa stanza? Sembra incredibile, ma mi fa quasi più impressione questa visione piuttosto che quella di poc’anzi della vetrina piena di capelli. Mi torna in mente una poesia di Borges che si intitola “Le cose” e sostiene che quando ce ne saremo andati da questa terra gli oggetti che ci sono appartenuti resteranno indifferenti a noi e alla nostra scomparsa. Però… che forza evocativa hanno gli oggetti appartenuti in passato a una persona per chi li osserva! Questa nuova vetrina che mi si svela a poco a poco invece contiene un mucchio di valigie vuote, ma chiuse, e su ognuna di esse un pennello ha tracciato il nome, il cognome e una data. La prima che mi è caduta sotto gli occhi è 1942. La data di arrivo al campo? No, poco lontano leggo 1897: sono date di nascita! Allora quella era la valigia di un bambino di non più di tre anni! Soltanto davanti a questa vetrina capisco che finora sono rimasta veramente impressionata soltanto dalla quantità di oggetti più o meno tutti uguali tra loro che ho visto in ognuna delle altre. Ma adesso no: queste valigie non sono tutte uguali, e le persone che se l’erano portate dietro hanno o avevano un nome, e sono o erano nati in qualche parte del mondo, e sono tutti morti qui, anche quelli usciti senza passare per il camino. E adesso mi sembra di vederli uno per uno, i vari David, Isaac, Judith, Leah… Vorrei reagire qui come Elena poco fa davanti alla vetrina delle scarpe, ma non ci riesco. Sono come anestetizzata, vorrei tanto che qualcuno facesse qualcosa per ricordarmi che dentro ho ancora un’anima. Mi si sono aggrovigliate dentro tante di quelle emozioni che non ci capisco più niente, anzi mi sembra addirittura di non essere più in grado di provare niente. Esco da questo block come se ci avessi lasciato qualcosa dentro, sciamando con il resto del gruppo dietro la guida che ci annuncia che stiamo per entrare nell’unico block del campo che è stato lasciato così com’era. Si trova sulla sinistra, in fondo allo stesso vialetto dove abbiamo trovato i block del museo. In realtà ce ne sarebbe stato un altro da visitare, quello in cui si proietta il documentario a cui accennava il cartello all’ingresso, ma non abbiamo il tempo di vederlo e siamo passati oltre. Prima ancora di arrivare al block, la guida conduce la nostra attenzione verso uno spiazzo in fondo a cui si trova un muro grigio che presenta i segni di numerosi colpi d’arma da fuoco e davanti al quale, come agli altari nel Giovedì Santo, sono stati posti dei fiori e dei lumini rossi. E’ il muro delle esecuzioni, un’altra vista che surgela il sangue nelle vene, il simbolo della cosiddetta giustizia che si applicava ad Auschwitz. Le finestre di entrambi i block che affiancano questa piazzetta sono sbarrate da tavole di legno verniciate di nero che sottolineano la tetraggine del luogo, nonostante sia illuminato da un sole che non ha smesso di essere cocente e ha fatto sì che gli unici posti in cui abbiamo respirato siano stati paradossalmente i block. Faccio fatica a camminare verso quel muro, come se ci fosse qualcosa che mi respinge, così preferisco arrestarmi a qualche metro di distanza e captare le parole di Magda, che spiega, traducendo le parole della guida, che quelle tavole servivano a impedire che chi si trovava nei block capisse cosa accadeva in quella piazzetta. Avrei molti motivi per dubitare dell’efficacia di un simile provvedimento… Il block alla sinistra del muro delle esecuzioni ospitava il tribunale del campo, infatti le stanze più vicine all’ingresso visibili dalle rispettive porte, ognuna delle quali è sbarrata da un vetro, hanno tutte un aspetto, per così dire, burocratico, con tavoli e scrivanie. Qui si svolgevano interrogatori e processi che avevano un solo verdetto: “colpevole”. Ma questo era anche il luogo dove in alcune stanze dimoravano i prigionieri, stipati in letti a castello in cui si stava in due o perfino in tre, un luogo in cui anche i più schizzinosi dopo pochissimo diventavano capaci di mangiare orrende zuppe in confronto alle quali i brodini del nostro albergo polacco potrebbero sembrare il nettare e l’ambrosia e dell’Olimpo, e lavarsi sotto docce confronto alle quali i nostri tanto vituperati bagni in comune sono addirittura toilette regali. Non era già abbastanza una tortura tutto questo? Allora a che scopo aumentare il carico allestendo una sala delle torture degna di questo nome? In una stanzetta già di per sé piuttosto piccola erano state ricavate tre cellette quadrate di un metro di lato l’una, nelle quali i condannati a questo genere di supplizio dovevano restare in piedi per una notte intera. Le pareti delle tre cellette sono state tagliate obliquamente, in modo che il visitatore possa rendersi conto della loro struttura interna. Una è stata lasciata com’era in origine, senza altri spiragli che la strettissima apertura a livello del pavimento da cui i prigionieri venivano fatti entrare e uscire, quella in mezzo è visibile all’incirca per metà, della terza si vedono molto chiaramente l’intera pianta e lo spessore delle mura. Il fatto che in ognuna di quelle cellette si dovesse stare in quattro supera ogni umana immaginazione. Come era possibile che quelle persone riuscissero a respirare, come ce la facevano a entrare in quel metro quadrato da un ingresso tanto stretto, e come sarebbe stato possibile tirar fuori di lì qualcuno che fosse morto o solo svenuto? Non ci voglio nemmeno pensare… Nel sotterraneo di questo block ha sede un carcere, le cui celle sembrano perfino confortevoli rispetto alle cellette della tortura appena viste. Credo che in questo, dei luoghi visitati fin qui, si avverta più che altrove una sensazione di freddo che non dipende dalla temperatura dell’aria e scende dritta nell’anima. Forse quello che stiamo respirando è lo stesso odore, intatto, che annusavano i prigionieri del campo. Sentirlo è una sensazione che per i prigionieri dev’essere stato paragonabile all’effetto di entrare in uno stabilimento termale. All’ingresso, ti riempi le narici di quell’aria sulfurea, che ti piaccia o no, ma via via, senza nemmeno rendertene conto, finisci per abituarti e non la senti più. Noi resteremo solo per pochi minuti in un corridoio che da un gruppo numeroso come il nostro va percorso rigorosamente in fila indiana sul lato destro gettando uno sguardo frettoloso dietro le porte delle celle, quindi non avremo il tempo di assuefarci a un simile odore di sepolcro, piuttosto ci porteremo dietro il desiderio di uscire di qui prima possibile. Una di queste celle, l’unica davanti alla quale ci viene concesso di indugiare un po’ di più, che si distingue dalle altre per la presenza di un cartello esplicativo e una ghirlanda di fiori, è quella in cui fu incarcerato e poi ucciso san Massimiliano Kolbe, probabilmente il più famoso eroe di Auschwitz, la cui storia ha sempre suscitato in me una certa impressione. Qui vigeva una regola per cui per ogni prigioniero fuggito (e fortunati quelli che ci riuscivano!) ne dovevano essere uccisi dieci. In occasione di uno di questi tragici “appelli” padre Kolbe si offrì in sostituzione di un condannato che conosceva e sapeva avere moglie e figli, mentre lui, prete, non aveva una famiglia. Gli fu riservato un “trattamento di riguardo”, nel senso che non morì nella camera a gas, ma in questa cella per un’iniezione letale e dopo indescrivibili sofferenze che sopportò pazientemente, per non dare nemmeno un minimo di soddisfazione ai suoi carnefici. Fuori di questo block ci prendiamo una breve pausa sotto gli alberi, il tempo che basta a me e Massimo per raggiungere quasi contemporaneamente un negozietto di souvenir. Buon per lui, perché può chiedermi aiuto per comunicare in inglese con la ragazza alla cassa. Lui compra un documentario in italiano, più per mostrarlo a Sara che per sé, io un pacchetto di cartoline, chiuso in un depliant con una breve storia di Auschwitz. Prima di entrare volevo sceglierle una per una, ma poi ho pensato che in fondo non ne valeva la pena. Adesso non ho nemmeno voglia di controllare cosa c’è dentro. La pausa è finita: la guida ci invita a tornare verso l’uscita, perché stiamo per concludere il giro con il forno crematorio. Intanto ci indica altri block, quelli dove avevano sede le infermerie e i laboratori di ricerca, quelli in cui lavorava un autentico genio del male come il dottor Mengele. Il tempo non ci permette di dedicare a questi molto più di una rapida occhiata. In un piccolo spiazzo, accanto a un tabellone con alcune fotografie, è stata eretta una forca che un cartello ci spiega essere il luogo dell’esecuzione di Rudolf Höss. Qui davanti, perfino a una persona fermamente convinta dell’assurdità della pena di morte come me riescono a venire dei dubbi. Le foto di Hitler e di Höss non possono far dimenticare quelle dei corpi degli internati, le loro vite non basteranno mai a risarcire nessuno di quelle di milioni di persone. E’ significativo che il luogo della sua esecuzione sia proprio qui, perché l’ultima cosa che Höss vide prima che sotto di lui venisse aperta la botola fu proprio l’ingresso alla camera a gas, che sarà il prossimo posto che visiteremo. La guida ci avvisa che non è consigliabile scendere attraverso quel cunicolo buio alle persone che soffrono di claustrofobia o particolarmente sensibili, e ne ha tutte le ragioni del mondo, perché questo posto fa pensare a una specie di tumulo, una vera e propria tomba in cui si andava a morire a 700 per volta. Peggio di un mattatoio, peggio di una tonnara… No, non è possibile! Qualcuno mi spieghi come facevano a entrare qui dentro 700 persone! Nel soffitto si vedono delle aperture rettangolari, quelle da cui veniva il gas, la doccia mortale a cui i poveretti non sapevano di andare incontro. Anzi, loro erano convinti di andare a farsi una doccia, illusi fino all’ultimo di poter recuperare gli ultimi brandelli di umanità che ancora avevano addosso. Non escludo che molti morissero asfissiati anche prima, indipendentemente dal gas. Esisterà mai una maniera peggiore di morire? Perfino i condannati del braccio della morte nelle carceri degli Stati Uniti muoiono uno per volta, magari sotto gli occhi di quelli che chiedono di assistere all’esecuzione, ma almeno viene risparmiato loro lo strazio di non vedersi morire intorno altre persone, che siano conosciute o ignote poco importa. E poi in quel modo, ormai privi del pur minimo barlume di dignità, destinati a quella fine perché non si è trovata la maniera di sfruttarli altrimenti, senza vestiti e senza più nulla che potesse essere segno della loro identità, tranne quel numero tatuato su un braccio. Nella mia memoria si sovrappongono l’immagine del plastico della camera a gas e alcune scene del film “La vita è bella”. Ricordo quella con lo zio di Benigni che si avviava alla camera a gas e soprattutto quella in cui il bimbo andava a comunicare che volevano portarlo a fare la doccia, ma lui era scappato. Ci sono dei casi in cui fa bene disobbedire ai genitori… Il forno crematorio è immediatamente adiacente alla camera a gas, il che non fa che accentuare quella sensazione di organizzazione metodica che certo a chi ha ideato questi campi non mancava. Industriali della morte, che al loro servizio più che becchini avevano impiegati della nettezza urbana, ormai talmente abituati, per forza o per convinzione, al loro lavoro che dopo qualche tempo avranno finito per farci l’abitudine anche loro. Allora viene da domandarsi chi fosse più morto, tra i proprietari di quei corpi e coloro che li portavano via per caricarli sui carrelli e infilarli in quello che altro non erano che inceneritori da rifiuti. In un moto di istintiva (me lo auguro) pietà qualcuno ha pensato di appoggiare dei fiori su questi carrelli. Qualcuno ancora ha la forza di dichiararsi commosso, inorridito, frastornato… Io non sento più niente almeno da quando ho visto nel block tutta quella montagna di valigie. Siamo di nuovo fuori, all’aria aperta, in mezzo all’afa, sulla strada per l’uscita. Nel gruppo non c’è più molta voglia di parlare, né tanto meno di cantare, anche se è un nostro classico “seminare” brani di musica sacra in chiese e cappelle o comunque in luoghi dove ci sia qualcosa da ricordare. Ma questo non è il posto adatto, non ci verrebbe nemmeno un “Va’ pensiero” a cappella. “Arpa d’or dei fatidici vati, perché muta dal salice pendi?”. Ho detto “salice”? Ma sì! I salici qui davanti… forse non è un caso, forse ce l’hanno piantati apposta. Quei versi del “Va’ pensiero”, e anche quelli della poesia di Quasimodo che finisce con “…alle fronde dei salici per voto anche le nostre cetre erano appese e oscillavano lievi al triste vento”, vengono da un salmo della Bibbia che ricordava l’esilio a Babilonia e in cui il segno più evidente di lutto e disperazione del popolo ebraico era il fatto che loro non cantassero e non suonassero più. Anzi, i babilonesi trovavano che il modo migliore per schernire gli ebrei era chiedere loro di cantare e suonare gli inni che destinavano a Jahveh nel tempio di Gerusalemme, ma lontani dalla loro patria, loro non ci riuscivano. Storicamente, pare che la musica fosse un’attività molto diffusa tra gli ebrei, e la musica klezmer che ora va tanto di moda è solo la sua ultima forma. Re Davide suonava la lira, le mura di Gerico crollarono al suono delle trombe dell’esercito… Che io sappia, perfino nei lager si cantava e si suonava, ma solo per costrizione (è noto che parecchi strumentisti fossero impiegati per intrattenere i dirigenti dei lager) o per protesta. Si dice che cantasse padre Kolbe in cella insieme a coloro che sarebbero stati giustiziati con lui, e ricordo un film sulla vita di una donna internata in un lager, che si era salvata proprio perché faceva la cantante. Ma oggi ad Auschwitz gli unici che hanno ancora voce per cantare sono gli uccelli, che non sanno nulla di cosa alcuni uomini sono stati in grado di fare ai danni dei propri simili. Al sentir citare il detto “homo homini lupus”, i lupi si offenderebbero a morte! Restiamo qui ancora qualche minuto, quanto basta a me per procurarmi i francobolli che cercavo e al resto del gruppo per radunarsi e tornare sul pullman. Salgo insieme a Serenella, che era una di quelli che non volevano venire, ma poi si è convinta perché il concerto è passato. Non per questo la visita l’ha lasciata meno scossa, ma ha una domanda per me, o forse per se stessa (che strano: dall’inizio del pomeriggio mi sembra che la gente che mi sta intorno rifletta ad alta voce fingendo di parlare con qualcun altro!): “Ma perché non l’hanno raso al suolo, questo posto?” Ora però una risposta me la sono trovata, ed è una frase di cui non ricordo mai l’autore, e anche adesso che l’ho riletta da poco proprio all’ingresso del museo non so più chi l’ha scritta: “Chi dimentica il suo passato è condannato a riviverlo”. Rivivere un’altra Auschwitz? No, grazie! E che fra cento anni altri turisti possano ancora venire qui e portarsi dietro cartoline come quelle che sto sfogliando insieme a Roberta sul pullman che si lascia dietro i block e il filo spinato, se questo può servire a riavvicinare il ricordo di quanto un tempo accadde qui e allontanare il rischio che si ripetano certi orrori!

 

LAURA

 

Dopo tanto parlare non potevamo evitare di approfondire la storia del Dottor Mengele, il medico del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau. Lui era quello che, all’arrivo dei treni dei deportati, selezionava i prigionieri. Le donne, gli uomini, i bambini, i vecchi, sfilavano ad uno ad uno davanti alla commissione selezionatrice. A un suo segnale essi si allineavano in due gruppi. La colonna di sinistra comprendeva soprattutto vecchi, storpi, le persone gracili, le donne con i loro figli di età inferiore ai dodici anni… I malati che non potevano camminare, i vecchi e gli alienati venivano caricati su vetture della Croce Rossa. Poco tempo dopo essi varcavano la porta di un crematorio. Il Dottor Mengele li aveva condannati a morte. Un prigioniero scrisse una poesie su Mengele. Diceva:

 

Come un diavolo onnipotente

Io sorgo dalla profondità della notte…

Sono un medico sapiente

Capace di aumentare all’infinito il numero dei Morti.

 

Tra tutti colore che operavano ad Auschwitz egli era colui che portò più gente alla camera a gas.

Facciamo ora, come abbiamo fatto di Hoess, un breve resoconto della sua vita.

 

CHI ERA IL DOTTOR MENGELE?

 

Nacque il 16 maggio 1911 a Gunzbrg, una città sulle rive del Danubio. Per la città era un avvenimento, i festeggiamenti sarebbero stati grandi e numerosi. Il padre era orgoglioso perché ora la sua potenza non sarebbe decaduta, avrebbe potuto avere l’appoggio del figlio e la certezza che avrebbe continuato la sua opera. Dieci anni prima, egli aveva aperto una fabbrica di utensili agricoli, “Mengele & figli”. I figli erano venuti in seguito e il nuovo nato, Joseph, era il secondo. Herr Mengele aveva ben amministrato la fabbrica, aveva costruito da sé la propria ricchezza ed ora giustamente si compiaceva della considerazione e del rispetto che nutrivano per lui i concittadini. I suoi affari dominavano la vita economica della regione; la maggior parte degli abitanti della città erano suoi impiegati o dipendevano strettamente da lui. La nascita di Joseph Mengele assomigliava a quella di un giovane principe in una famiglia regnante. La sua infanzia trascorse felice in un’atmosfera sicura e confortevole. Solo una cosa pesava: era molto solo. Tute le sue amicizie erano accuratamente selezionate dal padre ed erano comunque sempre molto freddi nei suoi confronti. Comunque questo ebbe un minimo peso nella sua vita, egli continuò a studiare e ad avere quella buonissima educazione obbligatoria per un figlio di buona famiglia. Nel gennaio del 193, all’età di 19 anni, egli se ne andò di casa, per Monaco. Mengele aveva deciso di studiare filosofia. Preparò con entusiasmo una tesi su “La Critica della ragion pura”, il capolavoro del pensiero razionalista tedesco. Ma il caos e la “rivoluzione” che regnava nella politica di allora, lo presero nel profondo e lo portarono a militare nelle file della destra nazionalista. Dal 1931 entrò a far parte degli Elmi d’acciaio. Una sera, i suoi amici nazionalsocialisti lo trascinarono a una riunione. Qui un ometto prese la parola e la sua presenza suscitava un grande fervore. Fu conquistato da quest’uomo, che altri non era che Adolf Hitler. Nell’ottobre del 1933 Mengele si iscrisse alle SA. Da allora cominciò a leggere le opere di Rosenberg, l’ideologo del nazionalsocialismo. E si convinse e si esaltò della superiorità della razza ariana. Il nazismo era la chiave del successo, ne era convinto. Si laureò in filosofia e lasciò Monaco, per andare a Francoforte a studiare medicina. Il medico, infatti, sarebbe stato uno degli strumenti preferiti del regime nazista. Nel 1938, a 27 anni, ottenne il diploma di dottore. Mengele si arruolò nelle SS, la legione del Fuhrer. Poco tempo dopo ricevette un incarico all’istituto di Biologia ereditaria e di Igiene razziale di Francoforte. Doveva dimostrare scientificamente che “la razza è eredità e solo eredità”. Doveva eliminare l’influenza di ogni cosa esterna, le qualità e i difetti di una ragazza dovevano essere scritti nel patrimonio genetico. Se ci fosse riuscito, il razzismo della dottrina nazista avrebbe potuto fondarsi su una base scientifica. Solo a questo prezzo, pensavano i nazisti, tutte le misure razziali discriminatorie avrebbero potuto essere giustificate agli occhi dei posteri: esse avrebbero rappresentato solo la naturale protezione di un popolo superiore contro le aggressioni biologiche delle razze degenerate. Mengele si impegnò a fondo su questa via, convinto che vi avrebbe trovato la fortuna e la gloria. La sua ambizione segreta era quella di ottenere una cattedra universitaria. Scoppiò però la guerra e dovette abbandonare le ricerche e riuscì a farsi trasferire nell’amministrazione dei campi di concentramento. Nel maggio del 1943 arrivò ad Auschwitz. Aveva 32 anni. Qualche mese dopo divenne medico capo di Auschwitz-Birkenau. Mengele aveva ormai diritto di vita e di morte su centinaia di migliaia di uomini, donne, di bambini di tutte le origini. AL suo primo incontro con Hoess, egli si sentì dire che nel campo per i malati non c’era posto, che la gente doveva o lavorare o morire. L’ospedale doveva essere il luogo in cui si recuperavano le forze di lavoro ancora utilizzabili. Se la cura si fosse annunciata troppo lunga e troppo difficile, sarebbe stato inutile insistere. Il Reich aveva altre preoccupazioni che salvare ebrei o nemici dello Stato. Li si teneva in vita solo perché producessero. E poi le medicine servivano per i soldati tedeschi. A Mengele toccava designare i detenuti abili al lavoro e quelli che era inutile mantenere in vita. Mengele aveva subito giudicato Hoess mediocre, lo avrebbe assecondato solo per riuscire ad avere un suo appoggio per la sua ascesa. E ben presto divenne anche medico capo del campo di Birkenau. In quel periodo notò che il sovraffollamento, la fame, il freddo, le torture, avevano fatto sviluppare delle malattie estremamente “curiose”. Una di queste era il Noma, una specie di tumore del viso che assomigliava alla lebbra e che lo affascinava. Comunque, nonostante il suo enorme interesse, egli non aveva il compito di curarli. Tutto ciò che doveva fare era selezionare chi doveva andare a morire. A volte dava semplicemente il numero dei morti a dei suoi “dipendenti”, i quali radunavano queste persone nel piazzale e li caricavano sul “treno della morte”. A volte, quando il numero dei malati non era sufficiente, venivano presi anche degli uomini che, a causa della stanchezza, erano stati messi “a riposo” per qualche tempo. Quello che era importante era rispettare le “statistiche di morte”. Mengele si riteneva investito di un potere quasi divino sulla folla brulicante, tremebonda ed affamata dei prigionieri. Presto, nell’esercizio delle sue funzioni, prese l’abitudine di lasciare che l’umore del momento dettasse le sue decisioni. La sua perversità si può notare terribilmente in questa cronaca. In pratica, le donne scoprirono che le donne incinte avrebbero goduto di un trattamento a favore. Esse dovevano presentarsi dal primario che le avrebbe trasferite in un campo meno duro, dove non sarebbero state obbligate a lavorare. In realtà esse sarebbero state mandate alla camera a gas. Ed ecco il comportamento di Mengele. Prima di morire, le future madri venivano sottoposte ad un interrogatorio molto approfondito da parte di Mengele che, chiaramente, provava un particolare piacere nell’interrogare le sue vittime. Indugiò specialmente nei confronti di una giovane, internata da poco, e sorrise di soddisfazione quando questa confessò di non vedere il marito, soldato, da quindici mesi. La sollecitò poi a raccontare tutti i particolari della relazione adulterina e, quando la poveretta, terrorizzata, cominciò a parlare balbettando, Mengele, impaziente, la schiaffeggiò, comandandole di esprimersi a voce alta ed in maniera intellegibile. Quando la donna terminò il racconto, egli le fece notare che stava per pagare ben caro il suo piccolo tradimento: “Che volete farci, è la vita, vero?” le disse spingendola fuori dalla stanza. Si mise poi alla calcagna di una ragazzina di quindici anni che gli confessò di essere rimasta incinta dopo il suo arrivo nel campo. Mengele era al colmo del divertimento: ma come, quei cani riuscivano a trovare la voglia di abbqndonarsi ad avventure boccaccesche? Volle sapere tutti i particolari piccanti della storia: come aveva perduto la verginità, quando, con chi, in che luogo… Che racconto appassionante! Docilmente, la ragazza rispose senza esitazioni a tutte le sue domande, convinta che alla fine il medico l’avrebbe risparmiata. Aveva raccontato con precisione anche i particolari più scabrosi, arrossendo leggermente, ma all’improvviso Mengele, con un gesto, la mandò alla morte. Le prigioniere compresero di essere cadute in una trappola e da quel momento nessuna fece più cenno al proprio stato, cercando di cavarsela da sole.. Qualche tempo dopo, arrivarono da Berlino nuove direttive: le detenute avrebbero potuto partorire. Il susseguirsi di ordini contraddittori era un fenomeno estremamente frequente presso i nazisti che lo consideravano un ottimo metodo per mantenere i prigionieri nell’incertezza e nella paura. Così, un bel mattino, avrebbero potuto nuovamente decidere di mandare a morte le future madri. Il dottor Mengele aveva persino istituito una specie di lotteria sulla vita e sulla morte: se il neonato nasceva morto, la madre aveva salva la vita, se il neonato nasceva vivo, madre e figlio dovevano morire. Le visite di Mengele erano inaspettate. Egli poteva arrivare in ogni momento. E, quando faceva spogliare le vittime e indicava destra e sinistra, fischiettando, guardava negli occhi le sciagurate che dovevano morire, quelle della destra, per godere del loro terrore.            

Alice

 

Questi due capitoli sono tratti da “Danubio” di Claudio Magris (edizione GARZANTI). L’intero libro è una lettura che consigliamo, anche se in più punti ci sono tali e tanti riferimenti di ogni genere (letteratura, filosofia) che diventa un tantino pesante, ma in generale è scritto molto bene. Buona lettura, almeno di questi due capitoli. Grazie a Laura per avermeli spediti.

 

A Gunzburg, in questa cittadina detta la piccola Vienna durante il periodo asburgico, la cittadinanza rese omaggio, il 28 aprile 1770, a Maria Antonietta che si recava, col suo corteo nuziale di 370 cavalli e 57 carrozze, al matrimonio con Luigi XVI e, più oltre, al suo appuntamento con la ghigliottina. Ma non è a Maria Antonietta che fanno pensare queste case amabili, queste vie accoglienti e ordinate, l’insegna dell’Hotel “Goldene Traube” col suo grappolo dorato. Qui è nato Josef Mengele, il medico aguzzino di Auschwitz, forse il più atroce assassino dei Lager; qui è rimasto nascosto fino al 1949, in un convento, e qui è tornato furtivamente del 1951 per il funerale del padre. Ad Auschwitz Mengele, sempre sereno e sorridente, gettava bambini nel fuoco, strappava lattanti dalle braccia delle madri e li sfracellava al suolo, estraeva feti dal ventre materno, faceva esperimenti su coppie di gemelli – con particolare passione su gemelli zingari – strappava occhi, che teneva infilzati alla parete della sua stanza e mandava al professor Otran von Verschuer (direttore dell’Istituto di antropologia a Berlino e professore dell’Università di Munster anche dopo il 1953), iniettava virus, bruciava genitali. Forse è ancora vivo, e da quarant’anni è sfuggito alla caccia. Certo, anche un uomo che uccide per divertimento un altro costringendo il figlio di quest’ultimo ad assistere alla scena, può amare il proprio padre. L’infamia attira la complicità: Mengele è stato scarcerato dagli americani, forse aiutato dagli inglesi a fuggire, nascosto dai frati, protetto dal dittatore del Paraguay. Certamente il nazismo non è la sola barbarie esistita al mondo, e condannare oggi la violenza nazista, che non è più minacciosa, serve a molti per far tacere altre violenze, compiute su altre vittime di razza e colore, e mettersi in pace con la coscienza grazie a questa professione di fede antifascista. Ma è anche vero che il nazismo è stato un apogeo, un vertice insuperato dell’infamia, il nesso più stretto che sia mai esistito fra un ordine sociale e l’efferatezza. E’ fuorviante ricorrere a spiegazioni patologiche, per il sadico medico sorridente, come se fosse un malato colto da irrefrenabile raptus. A Gunzburg, nel convento in cui era nascosto, non strappava occhi né squarciava visceri, e non credo soffrisse di crisi d’astinenza; si sarà comportato bene, un signore tranquillo e discreto che magari bagnava i fiori e ascoltava rispettosamente la funzione vespertina. Non uccideva, perché non poteva farlo, perché le circostanze glielo impedivano, e si rassegnava senza smanie a questa rinuncia, ai limiti che la realtà poneva alle sue aspirazioni, così come uno si mette il cuore in pace se non può diventare miliardario o andare a letto con le dive di Hollywood. Timor Domini, initium sapientiae; se manca una legge, un timore, un argine che impedisca di fare ciò che ad Auschwitz si poteva fare impunemente, non solo il dottor mengele, ma forse ognuno può diventare Mengele. I delitti di Mengele sono una pagina fra le più orribili dei campi di sterminio. Come ogni passione delittuosa, anche la sua voluttà di torturare rivela un’enorme banalità, vacua come il suo stupido sorriso durante l’esecuzione del crimine. Un medico ebreo, che era costretto ad assecondarlo nei suoi esperimenti, gli chiese una volta fino a quando sarebbe ancora durata quell’opera di sterminio. Sorridente, con dolcezza, Mengele gli rispose: “per sempre, amico mio, per sempre”. Quella frase ebete ed estatica contiene tutta l’ottusità del male: è la ripetizione meccanica e affascinata di una specie di formula rituale, oscillante fra il Refrain di una canzonetta psichedelica e una litania religiosa; è il balbettio di una povera mente drogata dalla crudeltà. Mengele, in quel momento, è incantato dalla trasgressione, la esercita come una specie di culto, pensa che essa illumini la vita quotidiana di una luce superiore. Gli atti che compie sono, oltre che atroci, di un’estrema stupidaggine, sono atti che ciascuno potrebbe compiere e che egli, nella sua ignoranza abbagliata dal Kitsch, pensa invece siano azioni riservate a pochi eletti. La retorica della trasgressione presenta il crimine come se questo contenesse in sé, forse per l’infelicità che si suppone lo accompagni, il proprio riscatto, senza necessità di altra catarsi. La violenza appare identica alla redenzione e sembra instaurare una specie di innocenza fra le pulsioni. La mistica della trasgressione, parola avvolta da un’enfasi edificante, s’illude di esaltare il male per il male, in dispregio di ogni morale; il technicolor suggestivo e tenebroso del Male è più seducente del sobrio bianco e nero del bene e un’opera che celebra qualsiasi infrazione è ossequiata con deferenza, quasi bastasse sparare a un amico, come Verlaine a Rimbaud, per scrivere le poesie di Verlaine. Il fascino della trasgressione ha origini antiche; la tradizione ebraica parla del Messia che giungerà quando il male sarà arrivato al culmine e secondo alcune sette estremiste accelerare il trionfo del male, cooperando ad esso, significa affrettare la sua fine e l’avvento della redenzione. Dinanzi all’oscura violenza latente nel fondo nascosto della propria persona, ognuno vorrebbe convincersi, come gli antichi gnostici, che le sue azioni, anche se impastate di fango e di crudeltà, non possono macchiare l’oro nascosto della sua anima e chiede allora l’autorizzazione o meglio l’ingiunzione di dar sfogo a quella violenza, nell’illusione che essa sia o conferisca innocenza. Finché la trasgressione si rivolge a codici sessuali, le cose sono facili, perché le infrazioni di tabù erotici, se compiute per la libera scelta da persone capaci di decidere e non accompagnate da sofferenze inflitte da altri, non sono il Male e lo zelo degli apostoli dell’orgia è solo ridicolmente innocuo. Le cose sono un po’ diverse quando Mengele strappa i genitali a chi no è consenziente a questo gioco; quando il nostro desiderio, come ogni desiderio giustamente rilutta da parte sua a venire represso, può venire soddisfatto a prezzo del dolore altrui. Il delitto di Raskolnikov e quello di M., l’assassino di bambine del famoso film di Fritz Lang, non nascono da capricci, bensì da reali e straziate passioni, che vanno rispettate nelle loro sofferenze, ma non perciò giustificate nelle sofferenze che infliggono ad altri. L’arte predilige questi esempi estremi ed abnormi, ma anche la nostra piccola esistenza quotidiana è intessuta di dissidi fra il nostro piacere e il diritto degli altri e viceversa. Il misticismo trasgressivo vuole amare non già il peccatore bensì il peccato e, credendo che l’unica cosa proibita sia il sesso, riverisce ogni impulso considerandolo impulso sessuale e ritenendo che ciò autorizzi o imponga la sua soddisfazione. E’ probabile che la sessualità di Mengele avesse a che vedere con le sue predilizioni e che la sua vita sessuale, ad Auschwitz, fosse soddisfatta, ma è opinabile che ciò giustifichi le sue azioni, inducendo a vedere in lui un uomo disinibito che, senza remore moralistiche, ha vissuto, come si suol dire, la sua vita. L’arte suggestionata della trasgressione redentrice sa esaltare in realtà soltanto colpevoli di terz’ordine, la manovalanza del male: i delinquenti-redentori che quest’arte – ad esempio la narrativa di Genet – propone a modello sono ladri, stupratori, assassini, crudeli e infelici criminali al minuto. Non si osa scorgere il Messia peccatore nel capo di stato che ordina di sganciare l’atomica o di radere al suolo una città, nel governatore corrotto che s’appropria del denaro destinato agli ospedali, nel fabbricante di materiale bellico che spinge un paese alla guerra per aumentare i suoi profitti o nel capufficio che umilia un proprio subalterno. E’ giusto aver più comprensione per il tagliagola di strada che per lo sterminatore a tavolino, se si pensa che abbia maggiori attenuanti d’infelicità o di bisogno, ma chi ragiona così si richiama a dei valori; è un uomo onesto che guarda al bene, anche se, per civetteria, non vuol ammetterlo. Se invece il redentore è colui che compie più a fondo il male, allora il leader che fa sganciare l’atomica, il profittatore di guerra, il capomafia che impedisce gli scioperi e il governante disonesto sono dei Messia più autentici di Jack lo Squartatore. L’artista ingenuo che celebra quest’ultimo è affascinato dalla sua perversione erotica, dall’eccitazione sessuale che egli suppone nel suo gesto, ma forse anche chi preme il bottone dell’atomica e chi defrauda gli altri del loro sostentamento prova, nella sua soddisfazione, chissà quale perverso orgasmo, che dovrebbe nobilitarlo agli occhi di chi ritiene che l’eccitazione sessuale nobiliti ogni agire. La dolcezza mielosa di Mengele, del suo sorriso e delle sue parole, con le quali egli spera di assomigliare all’Angelo della Morte, sono l’autentica, imbecille espressione di ogni fascinazione del male, di ogni mezza cultura che attende dalla paccottiglia delle tenebre una compensazione alla propria pochezza. Il gesto proibito, spesso piatto come gettare immondizie dal finestrino, non è meno ottuso quando tormenta o tortura. La Medusa, diceva Joseph Roth a proposito del nazismo, è banale. Le vittime di Mengele sono figure di tragedia, Mengele è una figura da polpettone. 

 

MAUTHAUSEN

In questo Lager, non dei peggiori, sono morte più di centodiecimila persone. L’immagine più terribile, forse più ancora della camera a gas, è la grande piazza in cui i prigionieri venivano raccolti e inquadrati per l’appello. La piazza è vuota, assolata e afosa. Niente più di questo vuoto rende l’irrappresentabilità di ciò che si è svolto fra queste pietre. Come il volto della divinità per le religioni che vietano di disegnarne l’immagine, lo sterminio e l’abiezione assoluta non mi lasciano ritrarre, non si presentano all’arte e alla fantasia, a differenza delle belle forme degli dei greci. La letteratura e la poesia non sono mai riuscite a rappresentare adeguatamente quest’orrore; anche le pagine più alte sbiadiscono dinanzi al nudo documento di questa realtà, che sovrasta ogni immaginazione. Nessuno scrittore, neanche grandissimo, può gareggiare a tavolino con la testimonianza, con la trascrizione fedele e materiale dei fatti accaduti fra le baracche fedele e materiale dei fatti accaduti fra le baracche e le camere a gas. Soltanto chi è stato a Mauthausen o ad Auschwitz può cercare di dire quell’orrore radicale; Thomas Mann o Brecht sono grandi scrittori, ma se avessero cercato di inventare una storia di Auschwitz le loro pagine sarebbero state edificate letteratura d’appendice rispetto a “Se questo è un uomo”. Forse le testimonianze più adeguate a quella realtà non le hanno scritte neppure le vittime, bensì i carnefici, Eichmann o Rudolf Hoss, il comandante di Auschwitz, - probabilmente perché, per dire cos’era veramente quell’inferno, lo si può soltanto citare alla lettera, senza commenti o senza umanità. Un uomo che lo racconti con ira o con pietà lo abbellisce senza volerlo, trasmette alla pagina una carica spirituale che attenua, nel lettore, lo schock di quella mostruosità. Forse per questo  è quasi imbarazzante incontrare per caso, a un inoffensivo e amabile pranzo, un sopravvissuto dei Lager, scoprire sul braccio del nostro gentile o antipatico vicino di tavola il numero di matricola del campo; C’è sempre un divario paralizzante fra la sua inimmaginabile esperienza e l’insufficienza dei gesti o delle parole con le quali egli vi accenna, facendola apparire quasi una routine. Il più grande libro sui Lager lo ha scritto, nelle settimane fra la condanna a morte e l’impiccagione, Rudolf Hoss. La sua autobriografia, “Comandante ad Auschwitz”, è il racconto oggettivo, imparziale e fedele di atrocità che sconvolgono ogni metro umano, rendendo intollerabili la vita e la realtà, e che dovrebbero sconvolgere e quindi impedire anche la loro rappresentazione, la stessa possibilità di raccontarle. Nella pagina di Hoss lo sterminio sembra narrato dal Dio di Spinoza, dalla natura indifferente al dolore, alla tragedia e all’infamia; la penna registra imperturbabile ciò che accade, l’ignominia e la viltà, gli episodi di bassezza e d’eroismo fra le vittime, le dimensioni immani del massacro, la grottesca solidarietà automatica che si crea per un attimo, sotto le bombe, fra carnefici e perseguitati. Hoss non è il solito burocrate, pronto a seconda degli ordini a salvare o ad assassinare con eguale efficienza; non è un torturatore come Mengele, no è neppure Eichmann, che racconta e rielabora la propria vicenda perché interrogato dagli israeliani, tentando di non pagare il fio dei suoi delitti. Hoss scrive dopo la condanna a morte, senza che nessuno glielo chieda; la molla che lo spinge a scrivere è oscura, non si lascia spiegare dal desiderio di nobilitare la propria figura, perché l’autoritratto che ne risulta è certo quello di un criminale e il libro sembra obbedire a un’imperiosa esigenza di verità, a un bisogno di ribadire la propria vita, dopo averla vissuta, di protocollarla con precisione, di passarla impersonalmente agli atti. Per questo il libro è un monumento, la registrazione della barbarie, preziosa contro i reiterati e abietti tentativi di negarla o almeno di smussarla, sfumarla. Il comandante di Auschwitz, assassino di centinaia e centinaia di migliaia di innocenti, non è più abnorme del professore Faurisson, che ha negato la realtà di Auschwitz. Scendo la Scala della Morte, che conduceva alla cava di pietra di Mauthausen. Su questi 186 alti gradini gli schiavi portavano macigni, cadevano per la fatica o perché le SS li facevano inciampare e rotolare sotto i sassi, venivano abbattuti a bastonate o a fucilate. I gradini sono blocchi ineguali e impervi, il sole scotta; il massacro è ancora vicino, vengono in mente divinità arcaiche avide di sacrifici umani, le piramidi di Teotihuacan e di idoli aztechi, anche se dei più moderni e civili non hanno impedito ai torturatori di torturare. Il libro di Hoss è terribile – terribilmente istruttivo – perché la sua epica concatenazione di fatti mostra come nella meccanica ruota delle cose si possa giungere, un passo dopo l’altro, a diventare non solo vigili urbani o cuochi dell’esercito del Terzo Reich, comparse dell’orrore, ma anche primattori e registi dello sterminio, comandanti ad Auschwitz. Gli scalini sono alti, sono stanco e sudato anche se non porto macigni e non ho le SS ai fianchi. Adorno ha detto che dopo i campi di sterminio è impossibile scrivere poesia. Quella sentenza è falsa – e infatti è stata smentita dalla poesia, per esempio da Saba, che sapeva cosa significasse scrivere “dopo Maidanek”, altro terribile Lager, ma che ha scritto “dopo Maidaken”; è falsa anche perché non c’è stato soltanto il nazionalsocialismo, e pure dopo i Conquistadores, la tratta dei negri, i gulag o Hiroshima la rima fiore-amore era – è – altrettanto problematica. La sentenza è tuttavia paradossalmente vera, perché il Lager è un esempio estremo di annullamento dell’individuo – di quell’individualità senza la quale non c’è poesia. Su questa scala di Mauthausen si sente, fisicamente, la superfluità dell’individuo, il suo annichilimento, la sua sparizione; come se egli fosse un dinosauro o un okapi, un animale estinto o in via di estinzione. Non solo la svastica, ma la storia universale, i processi generali cospirano a questo esautoramento. Il protocollo dell’interrogatorio di Eichmann è un documento estremo di una parcellizzazione dell’esistenza, della persona e del suo agire, che abolisce responsabilità e creatività. Eichmann non uccide, provvede al convoglio e al trasporto di colore che devono essere uccisi; la responsabilità sembra non coinvolgere nessuno  - perché ognuno, anche ad altissimo grado, è solo anello di una catena di trasmissione di ordini – o tutti, ad esempio pure le organizzazioni ebraiche, che i nazisti costringono a collaborare e a scegliere gli ebrei da deportare. Su questi scalini, il singolo si sente uno dei grandi numeri macinati dallo Spirito del Mondo che evidentemente da segni di squilibrio mentale, uno di quei numero di matricola che l’ufficio competente del Lager incideva sul braccio dei detenuti. Ma su questi gradini l’individuo ha saputo anche rendersi unico e incancellabile, più grande di Ettore sotto le mura di Troia. Quella giovane donna che, sulla soglia della camera a gas di Auschwitz, si volta verso Hoss, e gli dice, sprezzante – com’egli racconta – che non ha voluto farsi selezionare, come avrebbe potuto, per seguire i bambini che le erano affidati, e poi entra sicura con loro nella morte, è la prova dell’incredibile resistenza che l’individuo può opporre a ciò che minaccia di annientare la sua dignità, il suo significato. Nei vari Lager e anche su questa scala di Mauthausen sono avvenute tante di queste gesta, di queste Termopili che fermano la marea dell’abiezione. Mentre sono ancora sulla scala, ho davanti agli occhi una fotografia, fra le tante viste poco prima nel Lager. E’ la fotografia di un uomo senza nome, probabilmente dall’aspetto, un balcanico, un europeo sudorientale. Il viso è sfigurato dalle percosse, gli occhi sono due grumi gonfi e sanguinosi, l’espressione è paziente, di umile e solida resistenza. Indossa una giacca rattoppata, sui calzoni si vedono delle pezze ricucite con cura, con amore del decoro e della pulizia. Quel rispetto di sé e della propria dignità, conservato nel cuore dell’inferno e rivolto anche ai propri pantaloni sbrindellati, fa apparire le uniformi delle SS, o delle autorità naziste in visita al Lager, in tutta la loro miserabile straccioneria da carnevale, costumi presi a nolo al monte dei pegni, con la convinzione che un bagno di sangue li potesse far durare per un millennio. Sono durati dodici anni, meno della mia vecchia giacca a vento che porto di soliti in gita.

Laura

 

 

CANZONE DEL BAMBINO NEL VENTO (AUSCHWITZ)

FRANCESCO GUCCINI

 

 

 

Son morto con altri cento son morto che ero bambino

Passato per il camino e adesso sono nel vento

E adesso sono nel vento

Ad Auscwitz c’era la neve il fumo saliva lento

Nel freddo giorno d’inverno e adesso sono nel vento

E adesso sono nel vento

Ad Auschwitz tante persone ma un solo grande silenzio

E’ strano non riesco ancora a sorridere qui nel vento

A sorridere qui nel vento

Io chiedo come può l’uomo uccidere un suo fratello

Eppure siamo a milioni in polvere qui nel vento

In polvere qui nel vento

Ma ancora tuona il cannone e ancora non è contenta

Di sangue la bestia umana e ancora di porta il vento

E ancora ci porta il vento

Io chiedo quando sarà che l’uomo potrà imparare

A vivere senza ammazzare e il vento si poserà

E il vento si poserà

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL TEATRINO DEI BURATTINI

 

 

Venti giorni fa’, il centro sinistra ha perso (di brutto) le elezioni regionali, proprio a causa di questa bruciante sconfitta, il governo D’Alema è  caduto, il premier ha dato le dimissioni al capo dello stato che ha iniziato il solito giro di consultazioni per capire se c’era una maggioranza capace di governare.

Fin qui tutto perfettamente nella norma, l’assurdo, è successo quando Ciampi, piuttosto che sciogliere le camere ed indire libere e democratiche elezioni, ha preferito creare dal nulla il Governo Amato, sorretto da una maggioranza che non è più rappresentativa dell’elettorato popolare.

USA e Inghilterra, che sono politicamente molto più avanti di noi, hanno da anni due soli blocchi contrapposti, rispettivamente (Democratici e Repubblicani) e (Laburisti e Conservatori); noi no, ci distinguiamo da questi stati, grazie all’enorme numero di partitini politici che valgono meno di zero, ai continui ribaltoni e controribaltoni ormai all’ordine del giorno in ogni giunta governativa, sia essa a livello nazionale, regionale, provinciale o comunale; per non parlare della continua fuoriuscita di deputati e senatori da un partito all’altro, ormai il gruppo misto è un vero è proprio partito, che però non rappresenta nessuno tranne che se stesso!!!

Il 21 maggio si andrà a votare per alcuni referendum, uno di questi serve per cambiare la legge elettorale, l’attuale legge dà l’80% delle preferenze con il sistema maggioritario e il restante 20% con il sistema proporzionale.

I vari esponenti politici stanno proponendo diversi modelli elettorali, chi propone l’uninominale secco alla francese, chi il doppio turno alla tedesca.

La verità è che comunque vada il referendum non si metteranno mai d’accordo, rimarrà tutto così.

Avete mai visto “Il Gattopardo”? Nel film uno dei protagonisti pronuncia questa frase: “Che tutto cambi, perché tutto resti com’è”, è il motto di Andreotti, sarà un caso ?

 

 

 

 

Nongio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Che cosa succede se hai due mucche
Un istruttivo confronto tra forme di governo

 

 

 

SITUAZIONE

 

Sei da sempre un allevatore di bestiame, e hai due mucche nella tua stalla. Quello che succede poi dipende fortemente dalla forma di governo dello stato in cui vivi:



 

Feudalesimo

 

Hai due mucche. Il tuo signore si prende parte del latte.

 

Socialismo puro

 

Hai due mucche. Il governo le prende e le mette in una stalla insieme alle mucche di tutti gli altri. Tu devi prenderti cura di tutte le mucche, insieme con tutti gli altri.

Il governo ti dà esattamente il latte di cui hai bisogno.

 

Socialismo burocratico

 

Hai due mucche. Il governo le prende e le mette in una stalla insieme alle mucche di tutti gli altri. A prendersi cura di loro è un gruppo di ex allevatori di polli.
Tu devi prenderti cura delle galline prese agli ex allevatori di polli. Il governo ti dà esattamente il latte e le uova di cui i regolamenti stabiliscono che hai bisogno.

 

Fascismo

 

Hai due mucche. Il governo le prende entrambe, ti assume perché te ne prenda cura e ti vende il latte.

 

Comunismo puro

 

Hai due mucche. I tuoi vicini ti aiutano a prendertene cura e tutti insieme vi dividete il latte.

 

Comunismo russo

 

Hai due mucche. Tu devi prendertene cura, ma il governo si prende tutto il latte.

 

Dittatura

 

Hai due mucche. Il governo le prende entrambe e ti spara.

 

Democrazia di Singapore

 

Hai due mucche. Il governo ti multa per il possesso non autorizzato di due animali da stalla in un appartamento.

 

Regime militare

 

Hai due mucche. Il governo le prende entrambe e ti arruola nell'esercito.

 

Democrazia pura

 

Hai due mucche. I tuoi vicini decidono chi si prende il latte.

 

Democrazia rappresentativa

 

Hai due mucche. I tuoi vicini nominano qualcuno perchè decida chi si prende il latte.

 

Democrazia americana

 

Il governo promette di darti due mucche se lo voti. Dopo le elezioni, il presidente è messo sotto impeachment per aver speculato sui "futures" bovini. La stampa ribattezza lo scandalo "Cowgate".

 

Democrazia inglese

 

Hai due mucche. Le nutri con cervello di pecora e loro impazziscono. Il governo non fa nulla.

 

Burocrazia

 

Hai due mucche. All'inizio il governo stabilisce come le devi nutrire e quando le puoi mungere. Poi ti paga per non mungerle. In seguito le prende entrambe, ne uccide una, munge l'altra e ne butta via il latte. Alla fine ti costringe a riempire alcuni moduli per denunciare le mucche mancanti.

 

Anarchia

 

Hai due mucche. O le vendi a un prezzo equo, oppure i tuoi vicini provano a ucciderti per prendersi le mucche.

 

Capitalismo

 

Hai due mucche. Ne vendi una e ti compri un toro.

 

Capitalismo di Hong Kong

 

Hai due mucche. Ne vendi tre alla tua società per azioni, usando le lettere di credito aperte da tuo cognato presso la banca. Poi avvii uno scambio debito azioni con un'offerta pubblica, e riesci a riprenderti tutte e quattro le mucche con uno sgravio fiscale per il mantenimento di cinque mucche. I diritti sul latte di sei mucche sono trasferiti tramite un intermediario panamense a una compagnia delle Isole Cayman di proprietà dell'azionista di maggioranza, che rivende alla tua Spa. i diritti sul latte di tutte e sette le mucche. Il bilancio annuale afferma che la società è proprietaria di otto mucche, con un'opzione sull'acquisto di un'altra. Nel frattempo tu uccidi le due mucche perché il latte è cattivo.

 

Ambientalismo

 

Hai due mucche. Il governo ti vieta sia di mungerle che di ucciderle.

 

Femminismo

 

Hai due mucche. Loro si sposano e adottano un vitellino.

 

Totalitarismo

 

Hai due mucche. Il governo le prende e nega che siano mai esistite. Il latte è messo fuori legge.

 

Political correctness

 

Sei in rapporto (il concetto di "proprietà" è simbolo di un passato fallocentrico, guerrafondaio e intollerante) con due bovini di diversa età (ma altrettanto preziosi per la società) e di genere non specificato.

Controcultura

 

Ehi, capo... tipo che ci stanno due mucche... Oh! Devi proprio farti un tiro di 'sto latte!

 

Surrealismo

 

Hai due giraffe. Il governo ti costringe a prendere lezioni di fisarmonica.

CLAUDIO – DA INTERNET -

Vogliamo introdurre la storia del Cile. Vorremmo raccontare tutto quanto, ma non sappiamo nemmeno da dove cominciare perché, come dice Marianna (la ragazza del pezzo qui sotto) se sa troppo poco ed è comodo non sapere. Ogni volta che “scopriremo” qualcosa aggiungeremo sul giornale. Per ora è tutto.

 

La parola Cile, nella lingua degli indios Aymara, antico popolo andino, significa "là dove finisce la terra". Sembra uno slogan involontario per depliant turistici di fine secolo, ideale per attrarre amanti delle destinazioni limite. Eppure forse mai come in questo caso vale la categoria, spesso abusata, del mondo ai confini del mondo. Quanto meno in termini geografici. Il Cile è infatti una striscia di terra sottile, stretta tra il Pacifico e le Ande, larga in media 180 chilometri e lunga ben 4.300. Una "follia geografica, con la testa ai Tropici e i piedi al Polo Sud e, di conseguenza, un campionario unico di ambienti e suggestioni naturali: deserti di sale e fiordi ghiacciati, steppe ventose e vulcani innevati, mari tempestosi e isole sperdute. Spazi remoti, dove lo stereotipo del limite si fa realtà e lo spaesamento tanto caro ai viaggiatori di frontiera diventa possibile. In luoghi avvolti nel mito, il cui solo nome basta per evocare l'altrove, come Patagonia, Terra del Fuoco, Isola di Pasqua, Atacama, Ande, Pacifico. La parola Cile, nel linguaggio della politica internazionale invece, evocava fino a qualche tempo fa gli spettri della dittatura militare. Il golpe contro Allende, i diciasette anni di repressione spietata, gli oppositori desaparecidos. La democrazia È tornata nel 1990, ma il generale Pinochet È sempre lì: senatore a vita e ancora punto di riferimento per i settori più conservatori della società cilena. A intervalli quasi regolari si ode il rumore degli stivali dei carabineros, si levano le grida di chi attende giustizia per i crimini subiti, e viene da chiedersi se il Cile non sia tuttora una democrazia parzialmente sotto tutela. Eppure il Cile di oggi È considerato il Paese più ricco e stabile dell'America Latina, tanto da essere scelto da molte multinazionali come sede per i propri uffici continentali, con tassi di crescita record (7,2 per cento annuo) e una pace sociale invidiabile. Santiago è lo specchio del momento felice che vive il Cile, con interi quartieri nuovi che avanzano nella vallata. La capitale non è bella, ma è il cuore, un pò nordamericano, un pò andino, del Paese. È per questo motivo dovete fare visita a Santiago. Per avere un'idea di come vive un terzo dei quindici milioni di cileni - meticci, bianchi e indios - che la popolano, sotto la cordigliera che incombe sui grattacieli di Las Condes e le vecchie case bohemiennes di Bellavista. E passeggiate tra Pasco Ahumada e Plaza de Armas, accanto alla classe media in cravatta e in tailleur che si rovescia nelle vie del centro per la pausa del pranzo. Vagate tra i caffè vegetariani, i bar con cameriere in guepiere e i ristoranti con asado e show incluso. Curiosate tra il Mercado Central di pesce e frutta e i mercatini artigianali ai piedi del Cerro Santa Lucia e del monastero di Los Dominicos. Accostatevi alle civiltà dell'America centromeridionale attraverso le collezioni del Museo Precolombino. E perdetevi tra le stanze della Chascona, la casa di Pablo Neruda alle pendici del Cerro San Cristobal. Una delle tre case dove visse il poeta in Cile, trasformate in musei aperti al pubblico, piene di reperti e ricordi della sua esistenza di giramondo sensibile. Le altre due vi condurranno sulla costa, di fronte all'oceano. La Sebastiana, a Valparaiso, la città delle quarantuno colline e delle funicolari che la collegano al vecchio porto. E, un centinaio di chilometri più a sud, la casa-labirinto a forma d'imbarcazione di Isla Negra. L'ultima e la più amata, zeppa di libri, conchiglie e polene. Nel cui giardino Neruda È sepolto, accanto alla compagna Matilde Urrutia, "sopra il mare fiorito". L'itinerar¡o tra le case di Neruda è uno dei tanti possibili nel Cile degli scrittori. Terra di premi Nobel non solo Neruda insignito nel 1971, ma anche la poetessa Gabriela Mistral, premiata nel 1945. E di romanzieri contemporanei di enorme successo, come Isabel Allende, per esempio, grande narratrice di saghe familiari tra realismo e magia. E Luis Sepulveda, l'ultimo fenomeno, cantore appassionato della natura e dell'umanità del "mondo alla fine del mondo". Il suo nome È legato soprattutto alla Patagonia, ma nei suoi libri ha raccontato anche l'anima rarefatta e spaziosa dell'altro Cile, altrettanto remoto ma meno conosciuto: il Norte Grande degli altipiani, del deserto e dei minatori. Del nord, l'Atacama, il deserto più ando del mondo (m certe zone non piove dai tempi della colonizzazione spagnola, quattro secoli fa), occupa la gran parte. Le sue dimensioni gigantesche racchiudono ricchezze sotterranee che costituiscono le fondamenta dell'economia cilena (il rame incide per il 40 per cento sulle esportazioni del Paese). Per fervi un'idea di questo mondo minerale, entrate nella dantesca Chuquicamata, la miniera di rame a cielo aperto più grande del mondo, 1.000 ettari di estensione e 700 metri di profondità, dove ci si sposta su camion ciclopici con ruote dal diametro di quattro metri. E attraversate i villaggi fantasmi dei minatori, abbandonati dopo la fine dell'epoca d'oro dei giacimenti di nitrato di sodio, il cosiddetto salnitro (Humberstone È quello meglio conservato). Poi, fermatevi nella piccola oasi del viaggio di San Pedro de Atacama. E visitate il museo antropologico, la cui maggiore attrazione è Miss Chile, una mummia di duemila anni dai capelli ancora perfettamente intrecciati. E nei dintorni, le rovine di antiche fortezze indie, pukara, e la pianura di cristalli del Salar de Atacama, il più vasto deposito salino del Cile. A mezz'ora di distanza c'è la Valle della Luna: andateci al tramonto e aspettate che la luna arrivi in cielo a illuminarne le dune e i canyon. Partite di notte, invece, per raggiungere dopo quattro ore di fuoristrada i geyser a 4.300 metri di altitudine di EI Tatio, getti d'acqua calda a 85 gradi di dieci metri d'altezza, visibili solo all'alba. A queste quote attenzione al mal di montagna, il puna, da prevenire camminando lentamente e bevendo una tisana con foghe di coca, antico rimedio locale. Prima di lasciare la luce intensa del nord, spostatevi oltre sull'Altiplano al confine con la Bolivia per apprezzare il paesaggio di acqua e fuoco del Lago Chungarà, uno dei più alti del mondo, 4.570 metri, su cui si specchiano due vulcani gemelli perennemente ammantati di neve. E poi sulla costa, per scoprire le grandi spiagge di sabbia bianca dove si può fare il bagno tutto l'anno grazie al clima costantemente dolce del Norte Grande. Scendendo verso sud si attraversa la regione semiarida del Norte Chico e poi la fertile Valle Centrale, il cuore agricolo e industriale del Cile, che a seconda della latitudine ospita pascoli, boschi, campi di grano, frutteti e vigneti. E si giunge alla Regione dei Laghi, incorniciata da coni vulcanici innevati, molti dei quali ancora attivi, e punteggiata da chalet in stile bavarese che fanno pensare di essere in Germmania. E invece siamo nella terra dei Mapuche, gli ultimi indios a cedere agli spagnoli, soltanto cento anni fa, dopo una fiera lotta secolare. Qui il paesaggio comincia a esser disegnato più dall'acqua che dalla terra e si frantuma in una cascata di isole, fiordi, canali, promotori. Giù, giù, fino all'estrema punta meridionale del Cile e dell'America, Capo Horn, alla confluenza burrascosa dei due oceani di fronte all'Antartide. Puerto Montt, capoluogo della regione, È la base per raggiungere diverse destinazioni. Oltre ai laghi, le lagune e le isole. Come la magica Chilo‚. L'isoIa delle case di legno colorate con i tetti di lamiera ondulata, delle palafitte a schiera in riva al mare a cui ancorare le barche durante l'alta marea; delle capillas, 150 chiese lignee costruite dai gesuiti durante il XVIII secolo (di cui una decina dichiarate monumento nazionale); e delle foreste che l'hanno battezzata l'Irlanda del Cile. A Castro, il villaggio principale, girate a piedi, e fermatevi ad ammirare San Francisco, un'insolita cattedrale color salmone e viola, e la vecchia locomotiva tedesca del treno che, fino al maremoto del 1960, univa la città all'altro centro dell'isola, Ancud. Si racconta che la differenza fra i posti di prima e terza classe consistesse nel fatto che, in caso di difficoltà nel superare i lievi pendii della linea, il capotreno potesse chiedere ai viaggiatori di terza di scendere per spingere i vagoni. Racconti, credenze, leggende. Chiloé ne è piena; spesso con la rassicurante funzione sociale di dare un senso a eventi nefasti per la comunità. Come il Trauco, creatura deforme che si aggira nella foresta e seduce le giovani donne con la forza dello sguardo o la Caleuche, nave fantasma che attira i pescatori nell'ignoto del mare. Tornando sulla terraferma, il viaggio prosegue verso l'estremo sud australe, raggiungibile, oltre che in poche ore d'aereo, anche in auto o bus con un lungo viaggio via terra. Tra Santiago e Punta Arenas, la capitale della regione di Magallanes, sulla riva settentrionale dello stretto omonimo, vi sono infatti più di tremila chilometri di strada, compresa la deviazione in Argentina per aggirare gli immensi campos de hielo patagonici (prova evidente di chi, tra uomo e natura, detiene il primato a queste latitudini). Una volta arrivati, rilassatevi. La Patagonia e la Terra del Fuoco appartengono alla categoria dei paesaggi dell'anima, spazi che "permettono di guardarsi dentro e capirsi meglio" suggerisce Sepulveda. Montagne granitiche e ghiacciai secolari; un sistema intricatissimo di isole, canali e coste; distese pianeggianti e foreste millenarie intervallate da fiumi cristalli" e lagune colorate, regno di gauchos, pecore e guanachi, parenti meno nobili del lama. Quattrocento chilometri di asfalto e terra battuta separano Punta Arenas dal più spettacolare tra i parchi cileni se non dell'intera America Latina, il Torres del Paine, nel cuore della provincia dell'Ultima Speranza. Universo di vallate, laghi, picchi, cascate, iceberg, puma e nandù, gli struzzi delle Ande. Riserva della biosfera ed eldorado per ecoturisti, da esplorare a piedi (da non perdere la passeggiata fino al fronte del ghiacciaio Grey), a cavallo, in mountain bike o fuoristrada. Sul cammino, vicino Puerto Natales, non mancate di fare una piccola deviazione per la grotta del Milodon, enorme bradipo terrestre che si estinse alla fine del Pleistocene, con riproduzione a grandezza naturale (in plastica) dello spaventoso mammifero. E non dimenticate di visitare una delle smisurate estancias, le fattorie del luogo, che hanno a volte la dimensione di piccoli stati, con le staccionate bianche che si perdono all'orizzonte. Infine, prima di lasciare il limite del mondo, ricordatevi di guardare il cielo. Di notte, magari con l'ausilio di una carta ad hoc (se ne trovano nelle librerie di Punta Arenas). Lo spettacolo delle stelle dell'emisfero australe aumenterà la consapevolezza e il gusto di stare dall'altra parte - alla fine - del mondo.

 


Venticinque anni sono trascorsi, e mai il passato ci è sembrato tanto vicino. Attoniti, dubbiosi persino di sperare che il processo a Pinochet possa essere il riscatto del popolo cileno e di tutta l'umanità. Abbiamo voluto ripercorrere quelle ultime settimane quando Allende era ancora vivo e il Parlamento ed il Governo erano ancora quelli voluti dalle libere elezioni democratiche di tre anni prima. Per fare questo abbiamo sfogliato il quotidiano L'Unità di quell'anno, 1973 e ripresi i titoli degli articoli per farne una cronologia esauriente e incisiva nello stesso tempo. Questo volevamo e forse siamo riusciti nel nostro intento.

 

5 agosto

I ministri hanno presentato le dimissioni ad Allende per la creazione di un "nuovo governo". L'economia è paralizzata dagli scioperi dei trasportatori con l'adesione di altre categorie legate ai trasporti privati e la serrata dei proprietari. Appello do "El Siglo" a fermare il golpe. CUT e Allende dichiarano lo stato di allarme: "gli organizzatori degli scioperi dei trasporti agiscono come se fossero dei gruppi di guerriglia urbana".

 

9 agosto

Il comando della Marina ha denunciato un tentativo eversivo a bordo di due navi militari a opera di "Movimenti estremisti estranei alle istituzioni". Mandato di arresto contro il dirigente dell'associazione fascista dei proprietari di camion. Ondata di terrorismo.

 

10 agosto

Allende forma un nuovo governo con i capi Militari. Ministeri affidati ai comandanti dell'Esercito, della Marina e dei Carabinieri. Rimangono al governo tra gli altri 3 comunisti e 4 socialisti. Giudizio negativo espresso dal Presidente della Democrazia cristiana cilena in merito alla distribuzione delle carche. Appello del Partito comunista ai cileni perché si uniscano contro il pericolo di guerra civile.

 

11 agosto

In 750.000 manifestano a Santiago in sostegno di Allende. Folti cortei si snodano dalle fabbriche e dai quartieri, nonostante il blocco dei mezzi di trasporto provocato dalla serrata in atto. I politici sottolineano che il governo può ora misurarsi coll'attacco della destra. I partiti comunista e socialista esprimono la loro approvazione per il nuovo ministri.

 

12 agosto

Ultimatum deciso nella prima riunione del nuovo governo. Gli autotrasportatori cileni hanno 48 ore per riprendere la normale attività, diversamente saranno messe in pratica tutte le misure previste dalla legge per garantire la sicurezza e l'economia del Paese dopodichè si procederà alla requisizione degli automezzi. Equivoca la posizione della Democrazia Cristiana.

 

12 agosto

Uniti comunisti e socialisti in Cile contro i piani sovversivi della destra che si scaglia contro la partecipazione dei militari al governo Allende.

 

15 agosto

Appello di Allende al popolo cileno dopo un gravissimo attentato fascista. Interrotto il discorso che il Presidente stava rivolgendo al paese attraverso la radio e la televisione. Severo monito agli autotrasportatori che con la loro serrata tentano di soffocare l'economia. Pesante intervista
del leader DC Frei che sottovaluta e quasi giustifica il terrorismo, e incoraggia ad rovesciare il governo. 5 morti e più di 100 i feriti è il doloroso bilancio della sovversione. Tranciate con gli esplosivi le linee elettriche a Santiago e in tutto il Cile centrale.

 

18 agosto

Comincia ad incrinarsi la resistenza del patronato. Primi accordi sindacali. Requisiti 2.600 automezzi. Il governo precisa che le requisizioni hanno soltanto carattere temporaneo e servono per assicurare i rifornimenti alla popolazione.

 

19 agosto

Aspre tensioni in tutto il Cile. Appello dei sindacati a vigilare sui i tentativi reazionari. Il blocco dei servizi di autotrasporto ha lo scopo di fare cadere il governo. Il generale Ruiz si dimette dalla carica di ministro dei trasporti e comandante dell'aviazione. Ancora atti di violenza da parte
di squadracce di estrema destra.

 

20 agosto

Allende accusa le destre e la DC di volere il caos economico. Assassinato un esponente degli autotrasportatori favorevole alla trattativa. Il PC cileno accusa gli oltranzisti DC di opporsi alla legalità e di appoggiare la sedizione organizzata.

 

22 agosto

Gravi violenze fasciste nelle strade di Santiago. Il centro della capitale cilena attraversato dagli squadroni fascisti. La provocazione è scattata dopo il fallimento delle manovre atte a creare divisioni fra i militari e il governo mentre si profila la possibilità di un accordo con i trasportatori.

23 agosto

Terrorismo fascista in Cile per sabotare la distensione. Un deputato fascista ha appoggiato la provocazione anticomunista nella quale sono state ferite 13 persone.

 

24 agosto

La DC cilena alleata alla destra spinge verso un golpe.

25 agosto

La complicità della DC con i gruppi sediziosi mantiene alta la tensione in Cile.

26 agosto

Allende accusa l'opposizione di fomentare la guerra civile. Il generale Praz giustifica le sue dimissioni dicendo: "Non ho voluto servire di pretesto a coloro che si propongono rovesciare il regime costituzionale". Altri incidenti provocati dalle organizzazioni studentesche della DC.

27 agosto

Cile, nuovi appoggi democristiani alle manovre sediziose. La serrata dei trasportatori entra nel suo secondo mese e ha già provocato all'economia danni incalcolabili. Impressionante il bilancio della campagna terroristica di destra.

 

28 agosto

Due radio governative del Cile occupate da elementi sediziosi. Responsabili sono stati in un caso elementi fascisti e nell'altro militari della marina. Il compagno Insunza a nome della direzione del Partito comunista cileno denuncia le manovre dei golpisti e ribadisce la volontà dei lavoratori di portare avanti il Programma di Unidad Popular.

 

29 agosto

Dirigente fascista rivela un piano eversivo in Cile.

 

30 agosto

Presentato il nuovo governo coi militari. Monito di Allende ai reazionari. Il nuovo gabinetto prenderà "tutte le misure" per impedire che il paese venga gettato nel caos. Un appello ai lavoratori a non abbassare la guardia: "La rivoluzione è coscienza, responsabilità e generosità".

31 agosto

Il democristiano Tomic invita il suo partito a riprendere il dialogo con Allende. "Un'altra grave crisi è stata superata" scrive. Ma non c'è più tempo da perdere perché il governo e la DC definiscano le rettifiche indispensabili.

 

1 settembre

Ripresa ufficiale dei contatti tra il governo e la DC in Cile.

 

2 settembre

Nuovi intralci DC al dialogo in Cile. Demagogico appello di Frei ai "sacrifici" e alla "disciplina" del partito cattolico. Campagna della destra contro l'ammiraglio Montero, comandante della Marina, per provocarne le dimissioni. Energica protesta del PC contro le gravi provocazioni di
ufficiali reazionari.

 

3 settembre

Cile: i piani eversivi allarmano il ceto medio. Un manifesto di professionisti contro un nuovo tentativo d'invalidare il presidente Allende.

 

5 settembre

Il popolo con Allende. Cinque grandi cortei per le vie di Santiago. Grande manifestazione nel 3° anniversario del governo popolare. La confederazione dei professionisti minaccia uno sciopero contro il governo. Respinte le dimissioni dell'ammiraglio Montero.

 

6 settembre

Un milione di cileni a Santiago prendono parte alla manifestazione a sostegno Allende: Un fiume di donne e uomini sfilano fino a notte dinnanzi ai dirigenti di Unidad Popular. Il presidente invita i lavoratori a stare allerta: "Siamo di fronte ad una grande cospirazione e il nostro compito
principale è quello di sconfiggerla". Nuove gravi provocazioni degli autotrasportatori che si scontrano con la polizia: morti e feriti.

 

8 settembre

I medici cileni tornano al lavoro dopo le vivaci proteste popolari.

 

9 settembre

La Democrazia cristiana non accetta il dialogo con il governo popolare. Allende avanza l'ipotesi di indire un plebiscito in Cile, in tal modo verrebbe affidato all'elettorato il compito di dire una parola decisiva sulla situazione politica. Tesa la situazione alimentare per la farina e il grano. Il terrorismo fascista non si placa.

 

11 settembre

La grande prova del Cile. Il bilancio di tre anni di governo di Unidad Popular contro il quale le forze reazionarie strettamente legate all'imperialismo hanno scatenato l'attacco. La lezione politica e teorica da trarre sullo scontro di classe in atto nel paese. Le tappe delle
nazionalizzazioni e delle riforme nell'industria e nelle campagne con il consenso e la costante vigilanza delle masse popolari. Gli errori dell'estremismo. Il ruolo costituzionale delle forze armate.

12 settembre

Allende ucciso. Funzionari di polizia sostengono la tesi che il Presidente "si è suicidato" ma ad ogni modo i suoi assassini sono i capi del tradimento e della sedizione. Per tutta la giornata combattimenti a Santiago fra lavoratori e reparti ribelli. Il palazzo presidenziale e la residenza
privata di Allende bombardati e assaltati. I partiti socialista e comunista chiamano le masse alla resistenza e alla mobilitazione. Imposti lo stato d'assedio, la legge marziale e la censura. Centinaia di militanti dei partiti di sinistra vengono gettati in carcere. La protesta di laburisti inglesi. Manifestazione a Parigi.

 

13 settembre

Eroica resistenza in Cile. Sanguinosi combattimenti sono in corso a Santiago e in altre località del Paese. Tre reggimenti dell'esercito si batterebbero col popolo contro il golpe. L'arresto di numerosi esponenti politici. La giunta militare minaccia esecuzioni sommarie di chi oppone resistenza e l'impiego dell'artiglieria contro le fabbriche occupate dai lavoratori.

 

14 settembre

In Cile ancora nuovi scontri. Barbara repressione, 3000 morti. Ignobile comunicato della DC cilena che approva il golpe. L'Arcivescovo di Santiago condanna la violenza sediziosa. Clamorosa ammissione: Il governo USA sapeva del golpe 48 ore prima. Inequivocabili dichiarazioni delle fonti ufficiali. I menmbri della giunta militare hanno avuto contatti con esponenti americani: un parlamentare democratico sollecita l'inchiesta.

 

15 settembre

A 4 giorni dal sanguinoso golpe reazionario il Cile ancora isolato dal mondo. La resistenza popolare non si piega nonostante i massacri dei golpisti. L'ex presidente democristiano Frei giustifica e appoggia il colpo di stato dei generali. Brasile e Uruguay riconoscono il golpe. La reazione delle forze politiche italiane. Nuove dure condanne delle gravi responsabilità della DC cilena. L'opinione pubblica democratica isola i militari reazionari autori del golpe di Santiago. In Perù migliaia di minatori condannano il colpo reazionario. Unanime opinione in USA: Nixon
coinvolto nel golpe. Tito: "serrate le file contro l'imperialismo". Il presidente Yugoslavo invita i paesi non allineati ad una maggiore mobilitazione. Commossa esaltazione della figura di Allende

16 settembre

Fermare la mano degli assassini. Ai feroci massacri dei generali sediziosi del Cile si aggiunge la caccia all'uomo delle bande fasciste. Passati per le armi gli ex ministri Millas e Vuskovic? Il ministero della difesa, le accademie militari, due grandi stadi, le navi carcere di Valparaiso
rigurgitano di prigionieri. Fra gli arrestati gli ex ministri Clodomiro Almeida, i fratelli José e Jaime Toha, l'ex ambasciatore Orlando Letellier. Due medici cubani testimoniano dei brutali maltrattamenti inflitti ai detenuti. Il capo di stato maggiore dell'aeronautica, generale Gustavo
Leigh, ammette che i golpisti temono il diffondersi della guerriglia. L'ex ministro generale Praz costretto all'esilio in Argentina.

 

17 settembre

Si leva la protesta in Italia e nel mondo per bloccare la mano degli assassini.

 

18 settembre

La vedova di Allende fa appello al mondo. Infuria la repressione nei rioni popolari di Santiago. Feroce persecuzione contro esuli e rifugiati politici Le Duan e Castro denunciano le complicità imperialiste. Agghiaccianti tesimonianze sulle fucilazioni nelle borgate operaie. Una statua di Che Guevara abbattuta, libri e periodici socialisti e comunisti distrutti. Agenti segreti uruguayani partecipano alla caccia all'uomo scatenata in tutto il paese.

 

19 settembre

Appello di Unidad Popular ai popoli: "Fermare la strage di massa nel Cile". La direzione del PC cileno guida il partito della resistenza. Gas e bombardamenti aerei per soffocare la lotta in alcune borgate di Santiago dove si combatte ancora. Gli operai continuano a disertare le fabbriche e le
miniere. Camion dell'esercito scaricano mucchi di cadaveri in una fornace dove i corpi vengono bruciati. Centinaia di esuli politici consegnati alla Boliva. Nuove dichiarazioni del democristiano Aylwin che dimostrano la sua correità nel golpe.

 

20 settembre

Tutta l'Italia si ferma per il Cile. PCI e PSI esprimono il loro pieno appoggio alla delegazione cilena di Unidad Popular. La sinistra francese fa proprio l'appello di Roma. Breznev ribadisce la ferma condanna dell'URSS contro i crimini dei golpisti. Il generale Pinochet ammette: "si stanno
formando reparti di guerriglieri". Cuba denuncia le manovre USA in Perù, in Argentina e in tutta l'America Latina: "Il colpo fascista in Cile fa parte della strategia imperialista" "Washington vuole circondare con dittature reazionarie i regimi progressisti del continente".

 

21 settembre

Oggi solenne monito antifascista in solidarietà con il popolo cileno. Blocco dei salari in Cile. Massicci licenziamenti di operai, impiegati, ed insegnanti di sinistra. Sistematica distruzione dei libri di ispirazione socialista. Verso il ripristino delle funzioni di monopoli privati. Attività
di franchi tiratori. Dissensi fra i generali sulle prospettive.

 

22 settembre

Messi al bando dai golpisti tutti i partiti della sinstra. Mandato di cattura contro i segretari dep PC e PS Corvalan e Altamirano. Il generale Leigh annuncia una nuova costituzione che "chiude la porta ai marxisti" e la aprirà ai militari. Sorvegliata la casa di Neruda.

 

25 settembre

La morte di Pablo Neruda. Infamia: I militari devastano e saccheggiano la casa del poeta.

27 settembre

I golpisti sciolgono le organizzazioni dei sindacati cileni. Sostituiti tutti i sindaci e gli assessori comunali, I monopoli del rame sperano di rimettere le mani sulle miniere del Cile.

29 settembre

Corvalan arrestato dai golpisti a Santiago

 

MARIANNA

 

 

Questo è l'ultimo discorso di Salvator Allende a Radio Magallanes prima che venisse assassinato...quando l'ho sentito per la prima volta mi son venute le lacrime agli occhi anche perchè io lo trovo abbastanza ingenuo. Adesso ve lo trascrivo e anche se è un po’ lungo vi assicuro che vale davvero la pena leggerlo e capirete il mio stato d'animo quando l'ho ascoltato dalla sua voce con in sottofondo rumori di spari e di bombardamenti... (dal cd CONOSCI VICTOR JARA?  N.d.r)

A voi i commenti!

 

"La historia es nuestra, y los hacen los pueblo"

"Pagherò con la mia vita la difesa dei principi che sono cari a questa patria. Cadrà la vergogna su coloro che hanno disatteso i proprio impegni, venendo meno alla propria parola, rotto la disciplina delle Forze Armate.

Il popolo deve stare all'erta, vigile. Non deve lasciarsi provocare, nè massacrare, ma deve anche difendere le proprie conquiste. Deve  difendere il diritto a costruire con il proprio lavoro una vita degna e  migliore.

Una parola per quelli che, autoproclamandosi democratici hanno istigato questa rivolta, per quelli che, definendosi rappresentanti del popolo hanno tramato in modo stolto e losco per rendere possibile questo passo che spinge il Cile nel baratro.

In nome dei più sacri interessi del popolo, in nome della  patria vi chiamo per dirvi di avere fede. La storia non si ferma né con la repressione, né con il crimine; questa è una tappa che sarà superata, è un momento duro e difficile. E' possibile che ci schiaccino, ma il domani sarà del popolo, sarà dei lavoratori. L'umanità avanza per la conquista di una vita  migliore.

Compatrioti: è possibile che facciano tacere le radio, e mi accomiato da voi. In questo momento stanno passando gli aerei. E' possibile che sparino su di noi. Ma sappiate che siamo qui, per lo meno con questo esempio, per mostrare che in questo paese ci sono uomini che compiono la loro funzione fino in fondo; io lo farò per mandato del popolo ed a causa della volontà cosciente di un presidente consapevole della dignità dell'incarico.  Forse questa sarà l'ultima opportunità che ho di rivolgermi a voi. Le forze aeree hanno bombardato le antenne di radio Portales e di radio Corporacion. Le mie parole non sono amare ma deluse; esse saranno il castigo morale per quelli che hanno tradito il giuramento che fecero.

Soldati del Cile, comandanti in capo ed associati-dell'ammiraglio Merino-il generale Mendoza, generale meschino che solo ieri aveva manifestato la sua solidarietà e lealtà al governo, si è nominato comandante generale dei Carabineros.

Di fronte a questi eventi posso solo dire ai lavoratori: io non rinuncerò! Collocato in un passaggio storico pagherò con la mia vita la lealtà al popolo. E vi dico che ho la certezza che il seme che consegnammo alla  coscienza degna di migliaia e migliaia di cileni non potrà essere distrutto definitivamente. Hanno la forza, potranno asservirci, ma non si arrestano i processi sociali né con il crimine né con la forza.

La storia è nostra e la fanno i popoli.

Lavoratori della mia patria, voglio ringraziarvi della lealtà che avete sempre avuto, la fiducia che avete riposto in un uomo che è stato solo interprete di grande desiderio di giustizia, che giurò che avrebbe rispettato la costituzione e la legge, cosi come in realtà ha fatto. In questo momento finale, l'ultimo nel quale io possa rivolgermi a voi, spero sia chiara la lezione. Il capitale straniero, l'imperialismo, insieme alla reazione ha creato il clima perchè le Forze Armate rompessero la loro tradizione: quella che mostrò Schneider e che avrebbe riaffermato il comandante Araya, vittima di quel settore che oggi starà nelle proprie case sperando di poter conquistare il potere con mano straniera per poter continuare a difendere le proprietà ed i privilegi.

Mi rivolgo, soprattutto, alla semplice donna della nostra terra: alla contadina che ha creduto in noi; all'operaia che ha lavorato di più; alla madre che ha sempre curato i propri figli. Mi rivolgo ai professionisti della patria, ai professionisti patrioti, a coloro che da giorni stanno lavorando contro la rivolta auspicata dagli ordini professionali, ordini di classe che solo vogliono difendere i vantaggi di una società capitalista. Mi rivolgo alla gioventù, a quelli che hanno cantato e hanno donatola loro allegria ed il loro spirito di lotta; mi rivolgo all'uomo del Cile, all'operaio, al contadino, all'intellettuale, a quelli che saranno perseguitati, perchè nel nostro paese il fascismo è già presente da tempo negli attentati terroristici, facendo saltare ponti, interrompendo le vie ferroviarie, distruggendo oleodotti e gasdotti; di fronte al silenzio di quelli che avevano l'obbligo di intervenire, la storia li giudicherà. sicuramente radio Magallanes sarà fatta tacere ed il metallo tranquillo della mia voce non vi giungerà. Non importa, continuerete ad ascoltarmi. Sarò sempre vicino a voi, per lo meno il ricordo che avrete d= i me = sarà quello di un uomo degno che fu leale alla sua patria. Il popolo deve difendersi ma non sacrificarsi. Il popolo non deve lasciarsi sterminare ma non deve farsi umiliare.

Lavoratori della mia patria: ho fiducia nel Cile e nel suo destino. Altri uomini supereranno il momento grigio ed amaro, dove il tradimento vuole imporsi.

Andate avanti sapendo che, molto presto, si apriranno grandi viali attraverso cui passerà l'uomo libero, per costruire una società  migliore.

Viva il Cile, viva il popolo, viva i lavoratori!

Queste sono le mie ultime parole, sono certo che il sacrificio non sarà vano. Ho la certezza che perlomeno, ci sarà una punizione  morale che castigherà la vigliaccheria, la codardia, il tradimento."

11 settembre 1973

 

MARIANNA

 

 

 

 

 

 

 

L’IMPERO DI BILL GATES?

 

 

C’è un grande problema nell’aria: la borsa americana sta crollando perchè in America sta salendo l’inflazione, la causa di tutto questo è il processo a Bill Gates.

Come qualcuno sostiene Bill Gates e` stato processato e giustamente condannato perchè detiene il monopolio della tecnologia, a utenti esperti in informatica può sembrare più che giusta questa “accusa” anche se chi sostiene questa idea di informatica ne sa veramente poco; niente da dire sul fatto che esiste solo un grande sistema operativo, ma bisogna anche ammettere che ci sono delle piccole fazioni che utilizzano Linux, Dos…. Ma sono soprattutto utenti esperti. Se non si trattasse di computer ma di informazione, mass-media allora il problema ci sarebbe e sarebbe molto più grave… quello  segnerebbe le tue idee, ti potrebbe e dico potrebbe confondere le tue opinioni, non se uno ha la testa sul collo…. Ma se parliamo di come poter far funzionare un pc io non vedo tutto questo monopolio, uno e` liberissimo di cancellarsi windows e di installarsi linux, possiamo dire che non c’è troppa scelta in giro ma parlare di monopolio mi sembra troppo esagerato. Il problema e` questo come mai non c’è così tanta scelta in giro? Perchè sui pc viene preinstallato windows e non linux per esempio? Possiamo dire che gli utenti dei pc non sono cosi` esperti, e` già difficile ad alcuni far capire la differenza che esiste tra sistema operativo e programma figuriamoci mettergli davanti un sistema operativo difficile e chiuso come linux!!  La legge antitrust in America e` una legge importante, non dico di no, ma se davvero Gates avesse tutto questo potere, lo avrebbero condannato? Secondo me no, basta vedere e fare mente locale a un altro processo, di un calibro ben diverso ben più importante, che e` andato a “rotoli”, quel processo era quello per Pinochet, chiuso non perchè Pinochet non fosse colpevole, ma perchè c’erano interessi troppo alti in gioco, perchè era ed e` una persona molto potente e ben vista ai vertici del potere. Il confronto e` troppo forte condannare un uomo perchè “mette in pericolo” la libertà di pensiero con un monopolio inesistente e un uomo che ha negato la libertà e la vita di migliaia di persone, forse in America stanno troppo divagando si pongono problemi all’acqua di rosa, per meglio dire appoggia e ha appoggiato  un dittatore, ma condanna chi e` colpevole di essersi costruito un’azienda diventata molto importante in tutto il mondo. Come sempre torniamo su un discorso troppo lungo e complicato perchè certe cose vengono taciute, nascoste con la scusa che la popolazione non deve pensare, il fine giustifica i mezzi e bisogna “incanalare” i pensieri della gente perchè non se ne intende di questioni politiche, bisogna formare un certo livello culturale facile da strumentalizzare quindi diamo forza alla MTV generation e agli schemi prestampati, ai ragazzi “costruiti in serie”, diamo sfogo alla cultura anestetizzata…. “al regime fa sempre paura che qualcuno possa creare qualcosa di suo” e` per questo che conviene creare un alto stato di ignoranza e di paura dei diversi, paura del confronto, e` conveniente creare e contribuire a creare dei muri tra le persone, meno si comunica, meno si conosce, meno si e` pericolosi. Mentre invece riuscire a stabilire un contatto, capire che qualcosa si può fare, che a questo mondo c’è qualcosa da cambiare, che parecchie cose sono più importanti e più aberranti come la costruzione di mine antiuomo, come le guerre in ogni parte del mondo, come l’ignoranza.

Fa impressione ascoltare ragazzi che di fronte a certi orrori rispondono che se in tv quella guerra non viene raccontata, non può esistere, questo e` monopolio, questo e` strumentalizzare i pensieri della gente, non e` tutto oro colato quello che viene detto, e` necessario assimilare le informazioni e trarne delle conclusioni proprie, non si può credere ciecamente a tutto quello che viene detto, non si può perchè facendo cosi` si forma quella famosa generazione prestampata, facile da controllare. Siamo sicuri che sia giusto condannare Bill Gates, dietro la sua condanna si nasconde qualche verità atroce di cui non si può parlare? Non ci sta sfuggendo qualcosa? Non ci sono dei delitti ben più gravi non condannati?

 

Elena R.- Elisa R.

 

 

 

 

 


 

 

 

POESIE

 

 

Mal di testa

"Che fortuna che hai avuto,
sei nato maschio!"
Cara amica
oggi così mi hai salutato,
avevi quel mal di testa
che dura una vita,
e quando finisce per sempre
è una preoccupazione di più.

Che fortuna che ho avuto,
io son nato maschio!
Già, ma ci sono problemi,
ci sono mal di testa anche per noi,
ma forse hai ragione
i miei mal di testa presto finiscono
i tuoi ritorneranno tra un mese
ed ancora il mese successivo.

Però pensa, cara amica
immaginati le sensazioni
di un mese senza mal di testa
pensa alla gioia
di quei nove mesi
in cui tu darai la vita
in cui sentirai la vita
nascerti dentro.

Pensa a quei nove mesi
in cui si compie il miracolo
in cui la matematica
diventa finalmente un'opinione.

Certo non sarà facile,
una nuova vita vuole sacrifici
e ancora una volta, in questo,
io sono fortunato in quanto maschio,
però pensa a ciò che mi perdo
sentirsi al centro del mondo
nove mesi e portare a compimento
il fine ultimo della vita: la vita.

Gianluca 16 febbraio 1999

 

 

 

 

 

 

 

Tua voce

Sono state note tue
quelle che ho appena sentito,
era la tua voce
inconfondibile tra miliardi,
bella e potente
ma soprattutto chiarificatrice
di vie alternative
a vite tristi e obliose.

Ti ricordiamo sempre,
per quello che ci hai dato
ed è tanto
non ti scorderemo mai,
per il regalo
di sogni volanti
di idee
nuove ed originali.

La tua grandezza
ha lasciato dietro di sé
una scia luminosa
se c'è ancora chi
sulla tua voce canta
con le tue parole pensa
e con le tue note
compie viaggi incredibili.


Quando penso a quell'anno
spesso un brivido corre sulla schiena
e i miei occhi si bagnano di tristezza.

Ti porterò sempre con me,
nelle cose che mi hai insegnato
che a distanza di anni m'insegnarai,

sarai sempre al mio fianco
dentro le mie parole, le mie note;
sarai sempre nel mio cuore.

Gianluca 14/03/2000

Definizione d’amore

Ma cos’è poi l’amore
quello cantato in tante canzoni
quello visto in diecimila films
quello sognato
con le ragazzine della mia stessa età.

È quello che provo per te?
È amore?
o è altro...
Difficile davvero dirlo!
Più difficile darne una definizione!

È un sentimento, questo è certo,
e per questo così difficile da vedere,
molto più facile fosse un virus
se procurasse febbre, tosse,
magari un semplice raffreddore.

Sarebbe facile dare
“una prova d’amore”,
facile dire “ti amo”
senza paura di sbagliare
ma esser sicuri d’amare.

L’amore non è soltanto
piacere di baciare
o andare a letto insieme,
è sicuramente di più
ma è difficile dirlo.

Stai mesi e mesi
a pensar ad una ragazza
le scrivi poesie d’amore
per cercar di rapirle il cuore
in un temporale di poche ore.

Poi ti giri un attimo
e vedi che chi ami
è forse altrove
e lasci che il cuore
continui a batter per ore.

Ma è questo amore?
sentir che il cuore
batte irregolare
ogni volta che a parlare
è la ragazza che ti piace.

Sentire il tuo battito
andare di pari passo
con il suo cuore
e ballare un valzer
con il mondo intorno a noi?

Proprio difficile
dirti "ti amo"
se penso a tutto questo
che è il dubbio che sorge
quando mi dico che ti amo.

10 giugno 1999



Un bacio consuetudinario

Amore, oggi ho visto
una donna ed un uomo baciarsi
li ho osservati
per vedere noi nel futuro.

Li ho visti baciarsi
ed ho avuto paura
del tempo che scorre
e cambia tutto nell’uguale.

Amore, oggi ho avuto paura
di ritrovarmi un giorno
a baciarti senza passione
a baciarti appena ci vediamo
a baciarti quando ci salutiamo
a baciarti con le labbra solamente.

Ho avuto paura
di venirti a noia.
Ho avuto paura
di venirmi a noia.

Amore, li ho visti
che si baciavano senza cuore
sol con le labbra
senza un sentimento,
come una consuetudine
come qualcosa da farsi.

Amore, ho avuto paura
ma ho capito
che non è importante nulla
se non dimostrarti amore.

Ho capito che
non servono cento baci
se non racchiudono passione,
ne basta uno solo
che racchiuda tutto l’amore
che io ho per te.

15 febbraio 1999


 Feste

Una rosa, cioccolatini
ed un regalo
ma non ti aspettare nulla
gli altri giorni.

Un ramo di mimosa
baci e libertà
ma non ti aspettare nulla
gli altri giorni.

Tanti regali da fare
e tanti ne hai ricevuti
ma nn te ne aspettare altri
perché natale è un giorno
e tutti gli altri
sono la vita.

Oggi ti dico “ti amo”
con una rosa rossa
e con cioccolatini
a forma di cuore.

Oggi ti dico “ti amo”
non penso ad altro
questo giorno lo passo con te
e con il mio amore per te.

Oggi ti dico “ti amo”
ma domani non chiedermi
di rinunciare alla partita
per parlare con te.

Oggi sto con te
ma domani non ho tempo
non posso stare qui con te
la mia vita è anche altro.

Ragazza non fare festa
un solo giorno l’anno,
sii triste
un solo giorno l’anno.

Ragazza non fare festa
un solo giorno l’anno,
sii felice
trecentosessantaquattro giorni l’anno.

Forse non ci fossero feste
saremmo più felici sempre
saremmo più felici liberamente,
se soltanto non ci fossero feste
tutti giorni sarebber una festa
qualunque giorno sarebbe una festa.

15 febbraio 1999



GIANLUCA
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I DIRITTI NEGATI

 

 

In questi anni, dove il problema più grande è l'egoismo, è necessario riscoprire alcuni valori: l'altruismo, l'umanità. Per fare ciò si devono eliminare i pregiudizi e iniziare a "lottare", non usando le armi, ma usando le proprie idee, contro le intolleranze, i massacri, le guerre, quindi contro ogni violazione dei diritti umani.

L'uomo possiede delle libertà e dei diritti, il compito della comunità internazionale è quello di non permetterne la violazione.

Ci sono parecchie organizzazioni impegnate in aiuti umanitari c'è Emergency, Amnesty International e altre ancora. Sono organizzazioni, Emergency, che tenta di curare persone, soprattutto bambini, colpiti dalle mine antiuomo, e Amnesty International che tenta di mettere al bando tutte le violenze causate da guerre e giustizia che fatico a chiamare tale in alcuni quasi, come quello della violenza nei carceri.

E` giusto aiutare l'uomo a difendersi dalle manovre del potere, dalla voglia di potere, di espansione, di imporre una religione, ma secondo me si dovrebbe anche arrivare a condannare i responsabili di assassini, di massacri, non si può lasciare libero il massimo responsabile di questi atti, basti pensare ad un processo in atto qualche mese fa andato in fumo non perchè l'imputato Augusto Pinochet non fosse colpevole, ma perchè non è interesse fare giustizia, ci sono interessi troppo alti in gioco perchè si inizi veramente a proteggere e a tutelare le persone.

Io infatti credo che Kofi Annan abbia ragione, si deve creare un mondo migliore; chi ha la possibilità di farlo, invece di badare ai suoi interessi deve reagire, ci sono tante cose per cui "lottare".

Ci sono diritti negati in ogni parte del mondo, in Chiapas, una regione del Messico, i militari tengono un alto livello di terrore; il Tibet, tetto del mondo, è da anni sotto il governo cinese responsabile della strage di Lhasa e dell'esilio di molti tibetani in India; gli Indiani d'America hanno subito massacri e ora si vedono costretti a vivere in riserve; a Cuba fino a pochi anni fa l'embargo imposto dagli Usa non permetteva che la realtà e l'identità culturale continuasse a vivere; in Cile il golpe militare dell'11 settembre del 1973 ha portato a questo paese numerosi lutti e ingiustizie; in Africa, numerose guerre hanno provocato dei danni incredibili; le recenti guerre in Kosovo, a Timor Est, in Afghanistan,....

Il compito della comunità internazionale è di vedere questi fatti e cercare in tutti i modi di fermarli ed eliminarli; occorre far conoscere alle persone questi avvenimenti, bisogna diminuire il livello di ignoranza, sradicare l'intolleranza, aiutare i più deboli, si deve proteggere un paese dalle ingiustizie, solo cosi` il mondo migliorerà, solo cosi` l'uomo riacquisterà la dignità che gli e` stata rubata.

 

ELISA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI CINEMATOGRAFICHE

 

 

Il primo Film è “Velvet Goldmine”, la storia è ambientata a New York nel 1984, un giornalista inglese si trova a dover scrivere un articolo su Brian Slade, artista Glam, assassinato sul palco durante un suo concerto circa 10 anni prima.

Il film è un capolavoro generazionale, quanto individualista, merita più visioni perché al primo impatto l’intreccio potrebbe risultare di difficile comprensione.

Da segnalare la recitazione dei due protagonisti; Ewan McGregor (il Renton di Trainspotting) e Jonathan Rhys Myers.

La storia si ispira a due grandi della musica David Bowie e Iggy Pop.

Meravigliosa la filosofia Glam, che ama il travestimento per annullare l’identità sessuale.

Colonna sonora memorabile: Brian Eno, Lou Reed, Placebo, Slade, T-Rex, The Venus in Furs, carenza musicale dell’onnipresente Bowie.   

 

 

Maria Luisa

 

 

Fucking Amal

Elin (Alexandra Dahlstrom) e Agnes (Rebecka Lilieberg) sono due adolescenti che vivono nella cittadina di Amal, dove non succede mai niente di interessante; almeno fino a quando Elin fa una mossa inaspettata. Va alla festa sbagliata e la sua vita cambia totalmente. La ragazza, presa tra due amori e immersa nella vita della cittadina, dovrà fare i conti con se stessa per comprendere i suoi reali sentimenti. Il film è diretto dal regista svedese Lukas Moodysson (esordiente nel lungometraggio), ed è una storia contemporanea sui desideri, le gioie ed i dolori dell'essere innamorati, sugli aspetti comici e drammatici del diventare adulti e sul coraggio necessario per distinguersi dagli altri.

Presentato all'ultimo festival di Berlino e scelto come rappresentante svedese agli Oscar nella categoria del miglior film straniero, "Mostrami l'amore" (titolo originale "Fucking Amal") è stato uno dei grandi successi in Svezia nel 1998, al punto da competere con il "Titanic" di Cameron. Acclamatissimo anche dalla critica, il film è stato poi venduto in altri 20 paesi, sbancando i botteghini in Norvegia e in Finlandia.

Realizzato in trenta giornate di duro lavoro nel sud ovest della Svezia, il regista Lukas Moodysson ha scelto di lavorare con un cast di giovani dilettanti (a parte i due protagonisti) alla loro prima esperienza davanti alle macchine da presa. Ma il merito del regista è stato anche quello di essere riuscito a fare un buon film con una troupe di giovani, molti dei quali al loro debutto su un set cinematografico

 

 

Boys Don't Cry

Dal centro dell'America affiora una doppia vita singolare, un complicato triangolo amoroso ed un crimine che rischiano di mandare in frantumi il cuore della nazione. A Falls City nel Nebraska, Brandon Teena (Hilary Swank, vista in "Karate kid 4")è un giovane appena arrivato per costruire lì il suo futuro, conquistando gli abitanti della comunità. La maggior parte delle donne sono attratte da questo ragazzo che però nasconde un clamoroso segreto: non è infatti la persona che la gente pensa lui sia. Il giovane era infatti scappato dalla sua città natale, Lincoln, in preda ad una crisi esistenziale, ed in realtà Brandon Teena non è altro che una ragazza, Teena Brandon, decisa a dare una svolta in tutti i sensi alla sua mediocre vita. Il destino di Brandon cominciò a cambiare appena riuscì a conquistare il cuore di Lana Tisdel (Chloe Sevigny, vista in "Last days of disco" e prossimamente in "American Psycho") che trovava nel ragazzo quello che mai nessuno era riuscita a darle. Ma quest'amore diventerà poi la rovina di Brandon a causa di John Lotter (Peter Sarsgaard, visto in "La maschera di ferro") e di Thomas Nissen (Brendan Sexton III, visto in "Empire records"), che porranno fine all'esistenza di Brendon Teena. Diretto dalla regista Kimberly Peirce (laureata in letteratura inglese e giapponese e con una specializzazione in cinematografia, ma alla prima esperienza in un lungometraggio), il film si basa su una storia vera avvenuta verso la fine del 1993 che suscitò grande clamore in America per la sua particolare situazione. La regista si accorse della storia mentre lavorava sulla tesi di laurea su una donna spia della guerra civile che aveva fatto finta di essere un uomo: colpita nell'animo dalla storia di Brandon Teena, la Peirce è partita per Falls City per documentarsi sulla storia, per informarsi sulle abitudini dei giovani del luogo, per intervistare le persone che erano in contatto con Brandon tra cui la stessa Lana e per rivedere il posto in cui è stato commesso il delitto. Il tutto ha dato l'idea alla Peirce di raccontare la vita di Brandon.  Da segnalare la straordinaria interpretazione della Swank, premiata alla cerimonia degli Oscar come miglior attrice protagonista.

 

Claudio

 

 

RECENSIONI LETTERARIE

 

 

Il Signore degli anelli, di J.R.R. Tolkien

Una vera e propria pietra miliare del genere Fantasy, naturalmente non bisogna lasciarsi spaventare dalla mole (1359 pagine!), nonostante questo infatti il libro scorre via velocissimo, ci sono persone che l’hanno letto in un mese.

Si narra la storia della compagnia dell’anello, formata da Bilbo, Frodo, Gandalf, e altri personaggi meno importanti, che vanno alla ricerca dell’unico anello, per evitare che cada nella grinfie di Sauron, l’incarnazione del male.   Mentre si apprestano a raggiungere questo obbiettivo, vivono innumerevoli peripezie: avventure in luoghi remoti e terribili, episodi d’inesauribile allegria, segreti paurosi che si svelano a poco a poco, draghi crudeli e alberi che camminano, città d’argento e di diamante poco lontane da necropoli tenebrose in cui dimorano esseri che spaventano al solo nominarli, urti giganteschi di eserciti  luminosi e oscuri; e tutto questo in un mondo immaginario (La Terra di mezzo), ma ricostruito con cura meticolosa e in effetti assolutamente verosimile, perché dietro i suoi simboli si nasconde una realtà dura oltre malgrado la storia: la lotta, senza tregua, tra il bene e il male.

Leggenda e fiaba, tragedia e poema cavalleresco, il romanzo di Tolkien è in realtà un’allegoria della condizione umana che ripropone in chiave moderna i miti antichi.

 

 

Storie di ordinaria follia (Erezioni Eiaculazioni Esibizioni) di C. Bukowski

Già il titolo è tutto un programma, lui che ha cinquant’anni (al tempo in cui scrive questi racconti, attorno al ’70), le tasche vuote, lo stomaco devastato, il sesso perennemente in furore; lui che soffre di emorragie e di insonnia; lui che ama il vecchio Hemingway; lui che passa le sue giornate cercando di racimolare qualche vincita alle corse dei cavalli; lui che ci sta per salutare  adesso perché ha visto una gonna sollevarsi sulle gambe di una donna, lì su quella panchina del parco…

Lui Charles Bukowski, “forse un genio, forse un barbone”. Anzi, io Charles Bukowski, detto gambe d’elefante, il fallito, perché questi racconti sono sempre, rigorosamente in prima persona.

È in presa diretta. “Un pazzo innamorato beffardo, tenero, candido, cinico, i cui racconti scaturiscono da esperienza dure, pagate tutte di persona, senza comodi alibi sociali senza falsi pudori.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’isola di Arturo di E. Morante

Questo libro narra l’affascinante avventura affettiva e spirituale di un adolescente che lascia il mondo dell’infanzia per giungere, attraverso prove ed esperienze anche dolorose, ad una difficile maturità.

Ambientato alla fine degli anni Trenta nell’isola di Procida, vicino a Napoli, il romanzo si suddivide in due parti: la prima, corrispondente al lungo capitolo iniziale, racconta l’antefatto della storia, cioè le vicende di Arturo Gerace dalla nascita fino ai quattordici anni; la seconda si svolge nell’arco di due anni, dall’arrivo della giovanissima matrigna napoletana alla fuga del ragazzo, ormai sedicenne e maturo verso una nuova vita, lontano da Procida e dalla splendida favola dell’infanzia. L’isola, lo si capisce benne alla fine, non è nel romanzo solo un luogo geograficamente definito, ma il simbolo stesso dell’infanzia, di un’età magica e precaria che deve essere abbandonata per entrare nel mondo adulto.

Claudio

 

 

 

 

RECENSIONI MUSICALI

 

 

Among My Swan

Il terzo ed ultimo album dei Mazzy Star.  Il sound è lento, siderale, impressionista, subconscio, mistico.

Quel che conta e` la parte strumentale, a cui si devono le atmosfere pennellate con tanta intensità e/o torpore; la voce di Hope Sandoval fa’ il resto.

Lasciatevi ipnotizzare dalle cantilene infantili di “Disappear” e “Happy”, nel tintinnio fiabesco di Sunday Morning (Nico e Velvet Underground), cullare con  Flowers In December con il vostro lento preferito degli anni '60, intonare il solenne Cry Cry sulle note di un valzer di Neil Young. Il complesso osa spingersi oltre soltanto in Rhymes Of An Hour (colonna sonora del finale di “io ballo da sola”) per strimpellio ciclico e litania indianeggiante, a due passi da quella trance cosmica che forse era il loro progetto originale. In tutto questo gli strumenti fanno il minimo indispensabile, raramente levando la loro voce sopra quella della cantante. Ma proprio quel minimo indispensabile e` quel che conta.

In un’epoca in cui va la musica sparata a volume altissimo, un cd come questo è senz’altro fuori luogo, e io ve lo consiglio proprio per questo.

 

 

Riportando tutto a casa

Album d’esordio dei Modena City Ramblers; uscito inizialmente nel 1994 per l’etichetta indipendente romana Helter Skelter, è stato ripubblicato  alla fine dell’anno dalla Mercury.

Dialetto (“Tant par tacher”, “Delinqueint ed Modna”, “I funerali di Berlinguer”), musica irlandese  (“In un giorno di pioggia”, “Il bicchiere dell’addio”, Ninnananna”), spirito punk, canti di lotta (“Quarant’anni”, “Contessa”, “Bella Ciao”),  e una partecipazione di Sir Bob Geldof (“The great song of indifference”): insomma “Combat folk”.

 

 

 

 

 

 

 

Supernatural di  Carlos Santana (2000)

Date una chitarra elettrica agli dei, e suoneranno come Carlos. Più di trent’anni di rock business non hanno scalfito la purezza musicale di un’anima nata per abbracciare il mondo con un manico di chitarra. Santana è ogni volta se stesso, ogni volta proiettato su una scala che porta al cielo usando le note degli assoli come gradini. E ogni volta attuale, come provano le presenze emblematiche di rappresentanti di diversi generi musicali. La presenza di Everlast, Wyclef Jean, Lauryn Hill, Clapton, non è la ricerca di fiori all’occhiello: è la coerente ricerca di un musicista che da tempi non sospetti ha fatto della collaborazione, dello scambio di esperienze, una fonte di crescita irrinunciabile. Un disco superbo, consigliabile anche a chi non conosce Carlos Santana. Rimane un solo dubbio, avrebbe avuto lo stesso anche in Italia, se non fosse stato supportato dall’esplosione della musica latina? Non credo proprio!!!                                                           

                                                                                                               Claudio


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL PUNK NON é MORTO 

 

 

 

 


Punk: cosa significa, oggi questa parola? Chi sono effettivamente gli eredi di quel rivoluzionario movimento nato in Inghilterra a metà degli anni ’70?

E, soprattutto, ce ne sono ancora? Si ce ne sono moltissimi. Solo che non si vedono.

Alcuni per scelta, altri per necessità. In effetti, una parte ha fatto proprio l’epicureo motto “Vivi nascosto” e ha deciso di coltivare le sue passioni e le sue amicizie lontano dai “riflettori” della società. Questo atteggiamento è giusto, in teoria, però se applicato a lungo provoca ciò che infatti è successo: il silenzio è calato pesante su di noi e pochi si ricordano del “Punk” come qualcosa di vivo, in evoluzione.

Di questo non possiamo incolpare nessuno, poiché ce la siamo voluta, è stato il frutto  di una nostra scelta coerente e consapevole, ma quando si leggono articoli come quello sull’ultimo numero di “SBS Smemoranda Brothers and Sisters”, che in poche righe tentano di spiegare senza riuscirvi, ciò che non hanno capito gli stessi “autori”,  non si può fare a meno di sentirsi in dovere di far sentire la propria voce.

Troppo a lungo siamo stati ai margini, troppo. Innanzitutto i punk non sono un’accozzaglia di incivili che passa il proprio tempo a infilarsi spille da balia nelle orecchie e a insultare il prossimo. I punk non sono una massa di rozzi subumani, con le  vene ripiene di eroina e il coltello facile; e non sono soprattutto un gruppo di ignoranti fieri di esserlo e senza il minimo rispetto per il prossimo.

Al contrario il 90% dei punk italiani sono ragazzi con buona cultura, spesso superiore alla media (lo prova il fatto che frequentino con successo il liceo), provenienti da famiglie stabili e solide.

Infatti è proprio questo il punto più ignorato o non considerato da molti: noi abbiamo una cultura. Noi siamo così proprio perché conosciamo il mondo che ci circonda e ce ne vogliamo staccare. Noi non siamo assolutamente disposti ad assecondare una società che ci tratta come dei cerebrolesi, mentre ci sorride mostrandoci quanto sia bello indossare una maglietta di Calvin Klein, e quanto la tua vita possa migliorare se bevi Coca Cola, alle nostre spalle fa porcherie così oscene da vergognarsene lei stessa. Mentre la TV manda rassicuranti immagini di famiglie felici ed appagate grazie alla loro nuova monovolume, i politici curano solo i loro interessi e si adoperano per migliorare, si, ma il loro conto in banca.

Come se non bastasse, come se tutte queste cose non fossero sufficienti a far capire la nostra scelta di vita, ci sentiamo dare addosso da quella fascia, detta “ceto medio-alto”, figli di dentisti, commercialisti, dirigenti d’azienda, che ci accusano di uscire dal sistema, di andare contro la nazione, perché andiamo controcorrente.

E ci sentiamo dare addosso, purtroppo non solo verbalmente, anche da quelli che comunemente frequentano le discoteche e che vengono definiti “tamarri”.

Questi ultimi non lo fanno per un motivo politico, ma semplicemente perché ci vedono “diversi”.

È un bel concetto “diverso”, da chi? Da cosa? Tutti siamo diversi, tutti.

E per fortuna, altrimenti sai kè palle! Ma se io devo aver paura di camminare per strada il pomeriggio in periferia per il semplice motivo che ho punte, borchie, spille da balia sui vestiti e a tracolla, e un calzino di un colore diverso dall’altro, beh,

allora questa è una proprio una società del kazzo. E oltretutto c’è una grande omertà riguardo a questa situazione: chi sa, tace. E la maggioranza che non sa, non si pone il problema. Andiamo, alzi la mano chi sapeva le cose che ha letto. Quanti siete?

Mi piacerebbe saperlo, e mi piacerebbe anche sapere cosa ne pensate.

Con questo mio sfogo non richiesto ma non gratuito, ho solamente voluto comunicare che noi ci siamo, siamo numerosi, e con le idee ben chiare, anche se non si sente mai parlare di noi. E soprattutto che abbiamo un cervello e un cuore, una cultura, dei principi morali più o meno ferrei, che rispettiamo.

La nostra scelta di vita è difficile, spesso ci causa dei problemi, ma l’importante è essere coerenti con se stessi rispettare le decisioni altrui. In effetti non è semplice esistere a queste condizioni: no al consumismo, no al profitto, no allo sfruttamento.

Perché è più comodo uniformarsi e non pensare, lasciare la realtà dai negozi “in “ del centro, fuori dalle Audi, fuori dai campi da tennis.

A questo punto, chissenefrega se la mia vita non migliora affatto nonostante io compri tutto il comprabile, chissenefrega se la tanto proclamata “libertà di espressione” nella nostra “apertissime democrazia” alla fine non esiste.

Naturalmente noi non ci stiamo. Noi non siamo qui per scendere a patti con chi muove i fili del mondo. Molto meglio essere costantemente snobbati e continuare a vivere secondo il nostro credo, che essere al centro di giornali e TV solo per essere inghiottiti dal sistema nel giro del secondo.

 

 

Sara

                  

 

Ricordati di ricordare

 

Cisco perde subito il suo sorriso tranquillo. Siamo al concerto dei Modena City Ramblers a Trisobbio, il grande show è finito ed i musicisti si stanno allontanando piano piano dal palco. Cisco è rimasto a firmare autografi ed a stringere la mano a tutta la gente che si accalca lì al di qua dalle transenne. Durante il concerto, non mi ricordo neanche presentando quale canzone, il cantante dei Modena ha parlato dell'importanza della memoria storica, del non dimenticare. Così appena la piccola folla si disperde, mio padre si avvicina a Cisco e gli stringe la mano, facendogli subito i complimenti, come qualsiasi altra persona che sia passata di lì in quei momenti. I complimenti sono però non solo per la musica, ma proprio per quel discorso sul "non dimenticare".

- Siete ormai alcuni dei pochi che lo ricordano, ma è la cosa più importante. Non perdere la memoria del passato per non ripetere gli stessi errori nel futuro -

E' qui che Cisco diventa serio. In parte la stanchezza ed il disagio di un concerto senza due dei vecchi amici della grande famiglia che erano parte indispensabile di alcune canzoni, ma certo le parole di mio padre hanno toccato un argomento per il quale ha combattuto e sta tuttora combattendo. Mentre stringo la mano a Cisco il mio cervello ripesca nella mia memoria, quella per fortuna intatta e con ogni intenzione di essere mantenuta, un film di pochi anni fa. Ecco la stessa descrizione che lasciai una volta in prateria, più o meno.

 

Primo è libero dal campo di concentramento, e sta raccogliendo le poche cose con cui è sopravvissuto in quella prigione di dolore. Sfiora con le dita la stoffa ruvida e consumata della sua divisa da carcerato e la ripiega con cura mettendola nel suo zaino improvvisato. Daniele lo sta osservando, perchè ha già bruciato da tempo la propria divisa e si stupisce del comportamento dell'amico. Quando lo vede riporre con cura anche la stella a sei punte usata dai nazisti per contrassegnare gli Ebrei, non può trattenere una domanda:

- Perchè? -

Non serve altro, Primo sa quello che sta facendo e si è reso conto che Daniele lo osserva.

Con la destra fruga un momento nello zaino e ripesca la stella di David, sollevandola per farla vedere bene a Daniele. Alza lo sguardo cercando gli occhi in attesa del compagno di prigionia.

- Per non dimenticare -

 

L'avrete certo riconosciuta, è una scena del film tratto da "la tregua" di Primo Levi, raccontato un po' come me lo ricordavo. La cito ogni volta che qualcuno mi porta nel discorso, ed è una questione che ha una tale importanza per me che, se mai riuscirò ad avere una band seria con cui comporre pezzi propri e se riuscirò a conoscere abbastanza teoria musicale da non doverli fare tutti sul giro di DO come i gruppetti punk dell'ultimo minuto, la mia canzone si intitolerà NEVER FORGET.

 

 

 

 

FULVIO