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Good Luck

Quando uscì l'annuncio della data numero zero dei Giardini di Mirò, a Ferrara, il giorno dopo andai subito a prendere il biglietto, in un Mediaworld qualsiasi, per due motivi: il primo, perché avevo voglia di vedere l'effetto che facevano, le parole giardini-di-mirò risuonate dentro un Mediaworld che nemmeno li vende, i loro cd. Secondo, perché i Giardini di Mirò sono quel gruppo che se provi a spiegare come suonano, non ci riesci mica. Credo sia sufficiente, no?

Suonano "da sedici anni", come ha ribadito Jukka questa sera, alla Sala Estense, e hanno un'ironia lieve, emiliana, e levigata da anni, appunto, passati a suonare assieme, quando parlano sul palco tra una canzone e l'altra. Eppure, io che non li conosco così bene da poter riconoscere le smorfie e le incertezze delle loro corde vocali mentre ringraziano, mi sembra conservino intatto quel loro essere introversi, timidi, quel senso del pudore, quasi, che li fa sembrare (azzardo) naif, o noiosi, o aristocratici. Perché i Giardini di Mirò sono esattamente quello, 'classe' pura, una bottiglia di vino, di quello buono, da sorseggiare lentamente, facendo dondolare il bicchiere, o le teste, o le mani o le gambe, oppure da spaccarsele in faccia, senza ferirsi. Li ho sempre visti in situazioni non esattamente canoniche: stasera era la prima data del nuovo tour del nuovo album, per esempio, e prima ancora, era un gennaio di un secolo fa (2010), in tv si parlava ancora di minorenni a feste presidenziali, per dire, ed ero a Berlino, e casualmente loro suonavano proprio a Berlino, le musiche del film muto 'Il fuoco'. Quella sera me la ricordo bene, mi ricordo che al mattino chiesi a Kai, il ragazzo che ci ospitava, se gli andava di venire a sentire un gruppo italiano, lui rispose "ora me li ascolto su Myspace e poi vi dico", noi uscimmo, a consumarci i piedi sui marciapiedi, e quando tornammo, con un mite sorriso disse che in fondo non erano male, e ci avrebbe accompagnato. Così, in un sabato sera di gennaio, mi ritrovai con un berlinese a sentire i Giardini che suonavano le musiche per un film muto degli anni Venti, qualcosa di apparentemente distante, forse (da cosa, poi?), eppure secondo me spiega abbastanza bene cosa possono essere, i Giardini di Mirò. Ricordo anche che poi suonarono anche i loro pezzi, e Jukka disse che ogni volta che venivano in Germania erano felici, perché suonare fuori dall'Italia per loro era come "respirare", ed era esattamente il motivo per cui mi trovavo io a Berlino, quella sera, quell'inverno, ed ero così contento, di respirare assieme ad altri italiani, che a fine concerto quella sera feci una cosa che non faccio (praticamente) mai, andare da un componente del gruppo e salutarlo e stringerli la mano, vergognandomi come un ladro. Me la ricordo ancora, la faccia contenta di Jukka. Si può essere felici a suonare cose tristi?

Non lo so, non conta poi questo. Jukka, poi, me lo ricordo a Carpi, per Materiali Resistenti, io ero in prima fila perché a me ai concerti piace sentire i gruppi che suonano, che detta così può sembrare un'affermazione supponente, ma non è così scontato, pensateci. Mi ricordo quella pelle pallida e quella barba e quel viso che quando suona si stira e quando ringrazia si raccoglie, la faccia di Jukka, dico, quando la vedo penso che la faccia di un emiliano è come la sua, pallida, stempiata, minuta, e però sa stirarsi, sudare, sforzarsi, stropicciarsi durante dieci minuti in apnea di Berlin (la penultima canzone di stasera, per esempio). Quella sera si era là per resistere, prima di tutto, un'altra serata anomala per ascoltarli. Tipo stasera.

Stasera è stata già un'impresa arrivarci, conosco persone che in questo momento stanno facendo chilometri e consegnando ore di sonno in cambio di teste che smetteranno di dondolare, sempre più lentamente, soltanto quando saranno sdraiati, per dire, è stata un'impresa arrivarci tutti interi, sconvolti dall'aria aperta, dalle tachipirine e dalle cose che vanno in frantumi. Non l'avevo ancora ascoltato, prima di stasera, il nuovo album, Good Luck, si chiama, un po' perché odio ascoltare le cose in striming (problema mio, scusate), un po' perché volevo che andasse esattamente così: volevo fidarmi, di loro, volevo chiudere gli occhi e dondolare la testa, e così è stato. Anzi, forse anche meglio: tra un amaro del capo e l'altro passato sottobanco, ho scoperto pezzi che hanno più voglia di scuotere, e meno di bagnarti. Non ve la posto, la scaletta, l'ho rubata così non la saprete mai, andateci a sentirli, senza saperne niente, di cosa suoneranno, andateci perché dei Giardini di Mirò bisogna fidarsi: e ve lo dice uno che non li conosce così bene, appunto, ed è in casi come questi che la parola 'fiducia' serve ancora a qualcosa, forse.

Perché in fondo lo sai, che certe cose possono capitare solo qui, in Emilia, nelle città "con le zampe di diavolo sopra ai portoni delle chiese" (cit. Agu), in quelle sere dove non hanno importanza le canzoni ma chi le suonerà, e chi le ascolterà a fianco o dietro o davanti a te, con vecchi con la coppola in sala che si alzano a fine concerto, imperturbabili, con il maglione sollevato, con la camicia che esce dai pantaloni, ed occhi liquidi dietro gli occhiali spessi. Da qualche parte, sapere che esistono gruppi del genere, di cui magari per mesi ora non riascolterai più nulla, oppure ascolterai solo loro, e possono esistere soltanto in questa striscia di terra che si ricorda soltanto di dimenticare, o di rimpiangere, che fa crescere la nostalgia sugli alberi, per una sera, una soltanto, questa consapevolezza riesce a tenerti in equilibrio mentre muovi la testa, avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro.

(Cidindon era tra quelli che dondolava la testa, e scrive molto meglio del concerto di ieri sera, e di cosa è davvero stato, qui)

La notizia del nostro presente è fortemente esagerata

Forse non lo sapete, ma in edicola c'è un giornale che viene voglia di comprarlo soltanto 'guardandolo'. E' un mensile, e costa 50 centesimi, la metà di un caffè, e rappresenta lo stato dell'arte della grafica e dell'impaginazione di un periodico: è semplicemente impossibile, infatti, pensare qualcosa di più razionale e armonico di IL, il magazine del borghesissimo Sole 24 Ore. Discorsi fanatici da fanatico quale sono dei giornali, lo so: ma prendete l'ultimo numero in edicola, osservate soltanto la copertina, composta unicamente da caratteri dosati, quasi fossero stati messi lì con le mani, e non disegnate su uno schermo lucido di un Mac. Una grazia declinata su diverse tonalità di grigio, di pieni e di vuoti, di griglie seducenti: la perfezione stilistica, appunto.

Il lenzuolo

Sembra anacronistico, oggi, ai tempi in cui le notizie ormai le leggiamo in bagno sugli schermi degli smartphone, ritrovare la bellezza proprio in edicola, eppure IL è l'esempio di come basti il Bello, per aprire il portafoglio, è l'iPhone dei giornali italiani, ma a un prezzo di un Nokia scassato. Roba da far passare in secondo piano i contenuti, i direttori, le firme: IL è un oggetto da esibire in salotto, in bella vista, prima ancora che da sfogliare. Oggi l'ho comprato, non aspettando come faccio sempre il sabato perché francamente Il Sole 24 Ore non rientra tra le mie letture quotidiane, e poi avevo paura terminasse in edicola visto il gran vociare che se ne faceva su Twitter (come se la gente che usa Twitter andasse ancora in edicola, già). E così, il secondo grande merito di IL (il primo è la Bellezza) è stato farmi portare a casa anche un quotidiano dalle dimensioni così esagerate, in tempi in cui tutti i quotidiani puntano a rosicare preziosi centimetri di carta, riducendo le dimensioni il più possibile per tagliare costi di stampa, visto che appunto, i giornali, stanno diventando 'anacronistici', e non se ne vendono più. E allora bisogna tagliare, tutto.
E viene da sorridere, a pensare che proprio nell'imponente dimensione da broadsheet, quindi segno tangibile di un tempo che fu e che mai più tornerà, per i quotidiani, riscontri il grande merito di IL, che questo mese tenta di sostenere l'utopistica tesi dei quotidiani più vivi che mai. Non c'è affatto contrasto, in fondo. Perché il formato da lenzuolo del Sole 24 Ore mi costringe, per leggerlo, a prendere una sedia, a sedermi al tavolo della cucina, con la luce fioca, a fare rumore mentre lo sfoglio, a muovermi non solo con gli occhi ma anche con la testa, il collo, il dito per tenere il segno, lungo quelle pagine di un giallo come non se ne fanno più. Tradotto in una sola parola: esperienza.

Esperienza d'uso, direbbe un Jobs de noantri, qualcosa che i giornali di oggi, che stanno appallottolati in borsa, che si fanno sempre più timidi, nel tentativo di mantenersi simpatici, pratici, accondiscendenti ai nostri tempi sempre più compressi, non sanno più regalarci. Qualcuno una volta, ora non ricordo chi, disse che il vero stile di un uomo si misurava da come reggeva il giornale mentre lo sfogliava seduto a un tavolino di un bar. Oggi non c'è nessuno stile, nessuna liturgia, nel leggere di sfuggita su giornali sempre più piccoli, ed anzi, il respiro dell'Esperienza (opposta, certo, ma comunque significativa) lo si ritrova facendo scorrere le dita sulla liscissima superficie di un vetro di un tablet. E quindi il futuro è come sempre scritto sui nostri polpastrelli: è il tatto, la vista, l'odore, la percezione, è sporcarsi le mani d'inchiostro o sporcare il vetro con le nostre impronte unte. Questo, è un quotidiano, un giornale, la parola scritta, e di fronte al vetro di un iPad, o al lenzuolo ingiallito di un giornale obbligati a leggerlo a un tavolo, provo quel senso di rispetto che oggi, le cose sospese a metà, non mi fanno più provare. E bastano soltanto due euro, per farmelo tornare in mente.

Un giorno sopra un ponte

Trascorrere una giornata sopra un ponte può essere estremamente noioso. Di novembre, poi, con il cielo grigio come le pareti dei palazzi che ti fanno compagnia attorno, già freddo anche se è ancora autunno, la noia sfuma col passare delle ore in fastidio. Eppure, dopo aver passato 24 ore, quando siamo tornati davanti al mac a riguardare tutte le foto che avevamo scattato, ci siamo accorti che sceglierne solo 24 era praticamente impossibile. Non che fossero tutte bellissime, anzi. Ma c'erano davvero troppe persone, troppi volti, troppi dettagli, che avrebbe meritato di finire nella rosa 'finale' delle 24 scelte per la mosta fotografica che Simone, Francesca, Eugenio e il sottoscritto avevano in mente.

Quindi no, smentisco subito: non è stato noioso stare 24 ore sopra un ponte. C'erano i ragazzi che andavano a piedi verso il Renfe, a ballare, che hanno voluto farsi fotografare, c'erano quei deliziosi involtini primavera mangiati direttamente dal cartoccio preso al ristorante poco distante, c'erano quegli enormi tubi luccicanti di alluminio che di sera, viste dalla riva del fiume, fanno sembrare il ponte non il semplice ponte di via Bologna, a Ferrara, ma che ne so, il Guggenheim di Bilbao. C'erano le macchine che rallentavano, scambiando le reflex sui cavalletti per autovelox, in una ritrosia e diffidenza così ferrarese che sì, non lo dico affatto con ironia, faceva un pelo scaldare il cuore. E poi le ritirate in casa di Simone, campo base della sporca faccenda, per scaldarci un tè o dormire mezzora, mentre a turno gli altri continuavano a presidiare la carreggiata. Con l'ordine opposto rispetto a una trincea: di qui devono passare tutti.

E al mattino sarebbero effettivamente passati tutti, piedi brulicanti a tambureggiare sul selciato o far girare pedali, un movimento asincrono che andava via via intasando la stretta ciclabile sul ponte. Ci sono finiti davvero tutti, sulle nostre foto, anziani bambini donne uomini coppiette che si abbracciano ragazzi che abbassano il capo per timidezza, mani che si scaldano guanti che colorano di rosso una giornata grigia, grigia come il fumo delle caldarroste che purtroppo non è finito impresso sulle foto ma tranquilli, erano davvero gustose.

24 è il racconto di quella volta in cui quattro amici ferraresi hanno deciso di trasformare il ponte in una specie (lo diciamo sottovoce) di 'galleria d'arte', di fare delle foto a un ponte ed esporle poi sul ponte stesso. Apre sabato 26 novembre, domani pomeriggio facciamo pure un brindisi, tanto per fare scena, e poi sperando che nessuno le porti via, rimarranno aggrappate alla ringhiera della ciclabile a ridosso del ponte fino all'11 dicembre. Quelle foto non si annoieranno nemmeno loro, in queste due settimane di freddo di grigio di nebbia e di sole, a specchiarsi nelle persone che, per caso o per volontà, si fermeranno a guardarle.

Governo di Unità Nazionale

Se cade è a causa di eventi enormi, condotte eclatanti, puttanai strabilianti. Questo significa che uno leggermente meno incline ad eventi enormi, condotte eclatanti, puttanai strabilianti - uno così ma leggermente più presentabile - avrebbe potuto continuare a guidare quel paese. Ci sono quelli che non lo difendono più a causa di eventi enormi e condotte eclatanti, ma dategliene uno appena appena meglio e se lo faranno bastare.

"Evviva le persone normali". Floris chiude così una puntata moscia di Ballarò, moscia per vari motivi, tra cui per esempio il fatto che Floris non sia uno come Santoro (Santoro avrebbe pescato a mani nude nella carne macinata uscita dall'insaccatrice del Parlamento, la smorfia di Berlusconi alla lettura dei risultati, il deputato che invece di votare va in bagno a pisciare, il vedo-nonvedo serale davanti alla moka di Napolitano), ci ha messo semplicemente la musica della Piovra, e qualche immagine di repertorio. Un altro motivo per giustificare la scarsa rilevanza emotiva della puntata di stasera di Ballarò consiste proprio nel rendersi conto di come i momenti che più mordevano lo stomaco, gira che ti rigira, erano appunto proprio le immagini di repertorio stesse, quelle delle dichiarazioni di Silvio, forse l'unico, in questi diecimila ultimi anni, a metterci (finto) sentimento. Ma il punto è un altro, il punto è che oggi si celebra l'inizio della Fine, vada come vada molto difficilmente vedremo ancora Silvio Berlusconi alla presidenza del Consiglio. Quando accadrà, questa notte, domani, mai, è tutto sommato relativo: il punto è che riusciremo lo stesso a prendere sonno.

Ecco, e qui torno alla citazione iniziale dell'imprenscindibile Rafaeli, ed è questa la vera e definitiva e secolare vittoria di Berlusconi: stasera riusciremo comunque a prendere sonno. Incapaci, i più, di scorgere il "calcio dell'asino" (come l'ha definito Lucia Annunziata) che sta cercando di propinarci, indirizzando la Fine, sì, dove vuole lui (elezioni anticipate), ma soprattutto incapaci di renderci conto di constatare come ci siano voluti "eventi non prevedibili", e fattori esterni al nostro paese, per costringerlo con le spalle al muro. C'era una gara, tra Silvio e i Buoni, e i Buoni non sono riusciti a vincerlo, un po' come il fragile Andromeda alle prese con i Cavalieri d'Oro, alla fine toccava sempre al fratello Phoenix intervenire, sporcarsi le mani, e sbrigare la faccenda. I Buoni, ancora una volta, si sono dimostrati pavidi e inetti come Andromeda, soverchiati da un ribrezzo verso l'uomo e un inconfessabile e remotissimo senso di (paradossale)... rispetto (vogliamo chiamarlo così? soggezione, forse) verso il Drago dalle Mille Teste. Abbiamo perso tutti, noi buoni, negli anni ci siamo spogliati dell'armatura, ci siamo persino liberati dalle catene dei partiti e della politica, per provare a scalzare il Drago, ma ci voleva il fuoco per scacciarlo via, per rintanarlo da dove era venuto, dalla terra.

E così, con la tovaglia piena di tappi di champagne e di tasti F5 sparsi ovunque, a fine serata, non mi ricordo nemmeno più cosa ci sia da festeggiare oggi, o domani, o quanda sarà davvero compiuta, la Fine. La Fine è in atto dal suo Inizio, e probabilmente molto prima. La Fine è iniziata da quando abbiamo chiuso gli occhi, noi elettori di destra, e da quando abbiamo smesso di parlarci, noi elettori di sinistra, e poi si è allargata ed è uscita dalle urne vuote, per entrare nei nostri ristoranti pieni. Alcuni padri della patria oggi invocano un Governo di Unità Nazionale, che risollevi le nostre sorti. E come spesso mi accade, intravedo il presente tra i vagoni di un treno, forse uno degli ultimi avamposti in cui persone diverse sono costrette a stare assieme, a condividere aria, disagi, fortune e sfortune. Oggi, per dire, sono salito sul vagone, e di fianco a me c'era seduto un bisonte, stravaccato, con le sue gambe ostruiva il cestello dei rifiuti sotto al finestrino. Io, che sono timido e spaurito, ho preferito non 'disturbare' l'aggraziata postura del bisonte, e mi sono alzato per andare a gettare nel cestino del bagno il mio bicchiere di caffè da macchinetta a 80 sudati centesimi, lasciando sul mio sedile il mio zaino Invicta. Quando sono tornato, un signore si stava per sedere proprio lì, mentre il bisonte incurante continuava a guardare un filmato su Yahoo sul suo netbook, facendo finta di nulla, dimenticandosi che quello zaino era il mio, ovvero quello di sconosciuto: dunque perché ricordarsene? E poi sono arrivato in tempo, ho evitato il 'sopruso', mi sono seduto, e poi è salita una tipetta tutta entusiasta, che parlando al telefono raccontava all'amica che oggi "c'era il voto di fiducia sul governo", e io stavo per dirle "ma no cretina, non era un voto di fiducia", e invece di spiegarle pacatamente il senso della giornata, ho taciuto, tra la rabbia e la ragionevolezza ho scelto come sempre il silenzio, come aveva fatto poco prima il bisonte incurante del mio zaino segnaposto, e ho proseguito a origliare la telefonata (le famigerate intercettazioni?), facendomi investire dal suo entusiasmo: "Sai, sono davvero indignata, non si può andare avanti così, bisogna fare qualcosa di costruttivo, e allora ho deciso che parteciperò alla tendopoli che stanno tirando su in Prato della Valle, devi venirci anche tu, è strabello!". Già.
Io, lei, il bisonte, tutti pronti, tutti vittime della sindrome "Guardo solo al Mio Giardino", tutti possibili candidati per incarichi di responsabilità nel prossimo Governo di Unità Nazionale. Silvio già trema.

Sineddoche

Le poesie non riusciamo mai a ricordarcele a memoria, non più almeno, e allora siamo andati in giro a imparare un po' di figure retoriche di qua e di là dagli Appennini. L'immancabile (?) e lentissima pagina con le foto si trova qui.

Il palombaro

Il palombaro è un racconto sulle immersioni, sulla pelle che si lacera e poi si ricuce, sulle vacanze e su qualcosa che non tornerà più, sempre che sia mai arrivato. L'ha scritto Gaia Tarini, è il racconto dell'estate che vi offre Ciccsoft, da leggere sopra l'ombrellone o sotto lo sdraio, con i capelli gocciolanti mare che bagnano i fogli: potete scaricarlo in pdf a questo indirizzo, e poi stamparlo abusivamente in ufficio, in biblioteca, alla Coop o negli Autogrill.

Il bagagliaio è pieno di roba per il mare: ciabatte di plastica e tuta da sub, maschere, pinne, fiocina, macchina fotografica subacquea, crema solare, teli per stendersi in spiaggia. Anche un ombrellone coi colori stinti che mio padre deve aver comprato a metà degli anni Ottanta. Sta venendo via la vernice bianca dal bordo dell’albero maestro. È una cosa di tristezza assoluta, come questa benda. Sotto c’è la mia pelle cucita, rovinata, offesa: ho avuto un incidente in bicicletta, qualche giorno fa. Poco prima di partire. Se lo sapevo, non ci andavo, in bicicletta fino al negozio di videocassette. È passato un gatto velocissimo e io per non investirlo ho dovuto buttarmi dall’altra parte della strada. Sono finito contro una rete, mi sono tagliato via buona parte della pelle che copre lo spazio tra le due sopracciglia. Sette punti, e non ricordo quasi niente del dolore. Ogni tanto mi domando che cosa stia facendo adesso quel gatto. Voglio dire, se tutto questo è servito a qualcosa.

Clorofilla sui miei guai

Ieri sono salito sui monti come un timido partigiano rimasto senza voce, perché di notte dormo scoperto e di giorno così non riesco nemmeno a ordinare un caffè. Se cliccate qui ci sono le foto, la pagina è ovviamente lentissima a caricare, non a caso in montagna si sale con lentezza.

le foto dal passo pordoi e dintorni

Lassù pioveva, e si vedeva di tutto tranne che le montagne.

But we know it’s just a lie

L'estate è finita più o meno sabato 9 luglio alle 23.06, al termine del concerto degli Arcade Fire, davanti al botteghino di Ticket Office ormai chiuso, sopra i marciapiedi di Corso Garibaldi. Lucca è come Ferrara, più o meno, è circondata su tutti i lati da poderose mura medievali, ma la fortificazione della città toscana è conservata in uno stato migliore rispetto a quella ferrarese: le mura sono più larghe, più massicce, e le porte d'accesso al centro cittadino mantengono l'aspetto quasi originale. A Ferrara invece le mura ci sono e non ci sono, ci si può correre sopra come a Lucca, ci si può innamorare e rotolare sui prati in pendenza come a Lucca, anzi, forse ancora più dolcemente, perché i pendii fanno meno paura, ma presentano ampi varchi, di porte ne resiste a malapena una, Porta Paola, le altre sono state stravolte dal tempo e dalle auto, che per passare hanno preteso e ottenuto varchi in calcestruzzo. E in alcuni tratti non ci sono nemmeno più, o sono appena appena più alte dei vecchi che passeggiano solitari al mattino presto. A Lucca invece ci sono tante porte e hanno tutti nomi propri di persona. Credo.

 

Nel 2007 ho assistito al miglior concerto della mia vita, e devo dire che sono veramente una persona fortunata, perché il concerto più bello della mia vita (finora, ovviamente) si è tenuto esattamente (guarda te, le coincidenze) nella mia città, ci sono andato in bicicletta, mi ricordo ancora la saracinesca della cartoleria di via Cairoli dove l'ho chiusa, pensando che era fuori mano e che lì, sicuramente, non me l'avrebbero fregata (doppiamente fortunato: non me le fregarono mica, ha!), e di quella sera mi ricordo perfettamente tutto, la maglietta che indossavo, che avevo i capelli più lunghi di adesso, mi ricordo della mano appoggiata sulla sua spalla, sfidando timidezze e ritrosie e scandali, ricordo la scaletta, la gola sgolata e le braccia nude che sotto le luci di luglio picchiavano fragorosamente il tempo, ma senza violenza. Il miglior concerto della mia vita me lo ricordo perché era a Ferrara, perché ci sono andato in bicicletta e perché suonavano, senza violenza ma spaccando comunque i cuori e i polmoni soltanto grazie alla gioia (che cosa quasi scontata, vero?) quello che scoprii poi sarebbe diventato qualcosa di molto simile al mio 'gruppo preferito'.
Ma quella sera, luglio 2007, non lo era ancora, ma un concerto dove la pausa tra la fine ufficiale e l'inizio dei bis viene interamente riempita dagli ooohh del pubblico che prolunga all'infinito l'ultima canzone, non può non essere il mio preferito. Mi ricordo, di quella sera, a Ferrara, che c'erano un sacco di canadesi sul palco, c'era un tamburino che picchiava come un forsennato su un tamburo e c'erano canzoni che non avevano bisogno di spiegazioni, canzoni da scartare come caramelle, canzoni da tirarsi reciprocamente addosso come torte farcite alla panna, e leccarsi i baffi e andare a letto senza lavarsi i denti. Quella sera, in piazza Castello, eravamo tutti ricoperti di panna, e per le strade che si diramavano dal centro verso l'esterno c'era panna ovunque, e sorrisi ovunque, e mi ricordo ancora di quel gruppetto di ragazzi che si era spinto addirittura fuori dalle mura ferraresi, che non sono così possenti come quelle di Lucca e lasciano filtrare molto, forse tutto, e mi chiesero dove fossero finiti, e sorridevano anche se erano vicino a una rotonda e lontano da casa, così lontano da far girare la testa.

Magari ci saranno stati anche loro, ieri sera, a Lucca, in piazza Napoleone, larga, con gli alberi, con mille ingressi diversi, con il "corridoio di sicurezza", mi pare si chiamasse così, dove poter prendere quarti di focaccia e correggere il proprietario del negozio di dischi che stava esponendo in vetrina il vinile di The Suburbs posizionandolo però al contrario. Dai ciottoli a un imperatore, i canadesi ne hanno fatta di strada, e ne ho fatta anch'io, e col tempo ho preso il brutto vizio di fidarmi più dei concerti, che delle persone, più delle luci sul palco, che quelle dei tuoi occhi, delle scalette appallotolate dai tizi che smontano gli strumenti, che delle lettere che mi hai scritto. Le mura di Lucca sono molto più imponenti di quelle di Ferrara, e dal 2007 ad oggi è aumentato tutto, in proporzione, le mura, il prezzo del biglietto, la coda ai bagni, la birra che bevo, la mia pancia, la mia fronte sguarnita di capelli, che ora tengo più corti. E sono diventati grandi, grandissimi, anche i canadesi sul palco, Win Butler si erge in piedi sulle casse, e prende in mano le videocamere del pubblico in prima fila, nel 2007 a Ferrara non l'aveva mica fatto, a Ferrara cantava impettito, adesso parla, anche, e credo si renda conto di scrivere canzoni della madonna e di fare concerti che rendono felici le persone. E Regine, Regine è sempre una zolletta di zucchero, indossa sempre vestitini impertinenti come i suoi riccioli, ma ora sono ricoperti d'oro, e ora i canadesi hanno il maxi-schermo alle loro spalle, e molto più persone di fronte, e molte più mani che battono, anche se non riusciranno mai a fare più rumore di quelle che c'erano a Ferrara nel 2007. Ma piove panna montata ovunque, e ovunque le bocche si spalancano, e ogni volta, al loro concerto, e così, (e così sempre sarà, e questo il loro segreto), anche se adesso registi indipendenti producono film con le loro canzoni con bambini che girano in bicicletta, per farci commuovere davanti a uno streaming gratuito ma soltanto fino a mezzanotte, adesso suonano nello stesso festival dove suonerà Elton John, sponsorizzato dal Rotary, con i vergognosi palchi vip semivuoti.

Ma l'organo di Intervention è sempre pronto a gambizzarti, a metterti sulle ginocchia, e l'incedere del piano di We Used To Wait continua a farti paura come un tramonto di fine agosto, e Power Out ti fa scoppiare la testa, e Wake Up ti costringe ad aggrapparti alla prima cosa che incontrano le tue mani, la tua maglietta sudata da strizzare, la spalla di chi ti è vicino, un obiettivo 300mm di una reflex a caso, le transenne o le stelle. E Tunnels è sempre quasi insopportabile, sì, quasi non riesci nemmeno ad ascoltarla perché pensi che sia troppo. "Tutto". Che cosa è cambiato, allora?

Provi a dare la colpa ai Grammy, all'hype, alle mode, agli indie che si riproducono, ai capelli che cadono, alla gente, a Lucca, al Rotary, al palco vip a 90 euro, alle quattro ore di coda sull'Autostrada del Sole sprovvista però di Ombre, al fatto di averli già visti, e rivisti, al fatto che vuoi mettere la prima volta, vuoi mettere la nostalgia, ma niente, non riesci a smontare l'esperienza extrasensoriale che coinvolge tutti i cinque sensi, lo spettacolo live migliore cui si possa assistere, perché dove lo trovi un altro concerto dove esci col sorriso e con le labbra sporche di panna montata? Però il tarlo ti resta, il giorno dopo: ma cosa è cambiato, però, in tutti questi anni?

E a forza di rimuginarci sopra, al termine di una settimana in cui il tuo corpo ha affrontato prima un concerto dei National e poi un altro degli Arcade Fire, ovvero molto semplicemente la musica che ti ha tenuto in piedi in questi ultimi anni, a poche ore da un lunedì dove non riuscirai a fare altro che disegnare sul soffitto, perché l'estate è finita, ti accorgi che l'unico dettaglio ad essere cambiato sei tu. Sono io. E non perché ora ho meno capelli, o perché faccio impercettibilmente meno fatica a parlare con gli sconosciuti, no. Mi viene in mente il mito della Caverna di Platone, lo so, non c'entra assolutamente niente, oppure sì. E allora vado su Uichipidia per verificare che non sia diventato pazzo. Leggo:

Infine, il prigioniero liberato sarebbe capace di vedere il sole stesso, invece che il suo riflesso nell'acqua, e capirebbe che:
«è esso a produrre le stagioni e gli anni e a governare tutte le cose del mondo visibile e ad essere causa, in certo modo, di tutto quello che egli e suoi compagni vedevano».

Uhm. In questi anni ho imparato a fidarmi più dei concerti, che delle persone, più delle canzoni che facevano sbattere le imposte come temporali, che di quello che le persone mi dicono, e a credere che possa essere estate soltanto saltando e gridando Lies, Lies. E martedì scorso, e poi sabato, sono uscito a vedere la luce e a scoprire come sono realmente fatti gli oggetti la cui ombra viene proiettata sul muro di fronte. Bottigliette d'acqua rubate dalle borse, capelli che svolazzano, buste riempite di cartoline, edicolanti da abbracciare, persone cui chiedere scusa, abbracci, abbracci, sorrisi e abbracci. E poi 'grazie mille' in un inglese stentato, e poi si spengono le luci, e poi si ritorna nella caverna a incazzarsi con chi ti viene a spiegare le ombre, a mettere Haiti a volumi improponibili nell'autoradio.

Lies, lies.

 

(La foto è di Lillas)

Postcards from The National

Speciale The National Ferrara sotto le stelle 2001

The National a Ferrara (si legge tutto di fila, chiudendo gli occhi) è il concerto dell'estate 2011 cui siamo più affezionati. Perché quella voce di Matt Berninger, quella voce definitiva che sembra uscire direttamente dai ciottoli riscaldati dal sole, dalla terra su, su fino dentro le nostre narici, riesce a farci sentire semplicemente meno soli. Come poche altre cose.

Turn the light out, say goodnight,
no thinking for a little while

Abbiamo pensato che il concerto dei National di martedì 5 luglio, per Ferrara Sotto le Stelle, meritasse una sorpresa. Che ce la meritassimo noi, una sorpresa. Uno speciale di carta, da toccare e conservare, come siamo soliti fare da queste parti, di tanto in tanto. Ma un po' diverso dal solito.
Quattro racconti, per quattro canzoni, scritti per Ciccsoft da Cidindon, Chiara, Inkiostro e GiorgioP/Junkiepop. Illustrati dai disegni dei ragazzi di Maciste (Federico Manzone, Damiano Fenoglio e Lorenzo Mò). Tutto infilato dentro una busta.

Il risultato lo potrete scoprire martedì sera, mentre sarete in coda dai cancelli oppure seduti in piazza Castello ad attendere prima Beirut, e poi The National. Saranno disponibili 500 copie: se volete che ve ne teniamo da parte una, fateci sapere.

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Grazie, davvero, ad Antonio, Chiara, Fabrizio e Giorgio. E a Federico, Damiano e Lorenzo.
E a Simone ed Emma.

La parte peggiore dell’Italia

La parte peggiore del Paese si chiama Alice. La parte peggiore del Paese ha i capelli intrecciati sopra la nuca, colore del grano o dei muri delle case al mattino presto, e offre bicchieri d'acqua pubblica ai passanti. La parte peggiore del Paese la incrocio ogni giorno nel percorso che dalla stazione di Venezia Santa Lucia mi porta nel mio ufficio appena dietro Rialto: lungo il tragitto vedo gelatai napoletani, pizzaioli pugliesi e ristoranti tipici gestiti da cinesi, e poi lei, china sulla sua macchina da cucire dentro al suo negozio. O bottega. O studio. O laboratorio. Aspetta, ma che cos'è?

Oggi la saracinesca è mezza alzata, o abbassata, dipende dai punti di vista, e sui gradini per entrare ci sono appoggiate delle teste per parrucche, a vigilare Alice intenta a cucire un vestito. Fa scorrere il velo bianco sotto l'ago, preme il pedale con il piede, tiene in bocca gli aghi. L'altro giorno, invece, c'era una bollitore, esplicitamente vintage, d'accordo, ma pieno d'acqua, e un cartello scritto di suo pugno invitava a farsi un bicchiere, tanto era gratis. Si festeggiano i referendum anche così. La saracinesca è mezza alzata ma riesco lo stesso a intravederla, Alice, la parte peggiore dell'Italia, che sembra una specie di mamma intenta ad accudire la sua prole: i suoi cuccioli hanno la forma di stoffe, stoffe di tutti i colori, abiti, accessori, sparpagliati su scaffali ripieni appoggiati a pareti appena finite di essere imbiancate. C'è una tangibile atmosfera di precarietà (se questa parola non suonasse ormai come un luogo comune), di qualcosa che è stato e che non è più (chissà cos'era prima, questa che ora sembra essere diventata una bottega artigianale) e che ancora non si capisce bene cosa sia. Cosa voglia diventare. Tutto, le stoffe, i colori, le teste e le teiere e le macchine da cucire, sembra essere tenuto insieme soltanto da ago e filo, e le forbici sono lì, appoggiate sul tavolo, pronte per essere usate, per scegliere quali rami potare, e il metro per prendere le misure è arrotolato sul pavimento. Ora non serve.

La parte peggiore di questo Paese non lo sa nemmeno lei, cosa sia questo posto. Dice Alice che "aprirà nei prossimi mesi, sto ancora finendo di sistemare", ma se le chiedi cosa ci vuol fare, con questa bottega (la vogliamo chiamare così?), lei ti risponde "ancora non lo so". Ha in mente un sacco di idee, per schiarirsele: "Ci faremo dei laboratori, venderò i miei vestiti e non solo, cose di ogni genere". Un po' come mettersi a innaffiare il terreno nei giorni di sole, sapendo o sperando, la differenza non è così lacerante, che prima o poi inizierà a piovere.

La parte peggiore del paese si chiama Alice, è toscana, ha 34 anni e da sei fa la customista al Teatro La Fenice, a Venezia, un mestiere che se ci provi a visualizzartelo ti vengono in mente i teatri, appunto, il dietro le quinte, i vestiti sfarzosi e fuori dal tempo. Sa cucire "ma non è una sarta", ci tiene a precisare. Sembra fuori dal tempo anche lei, Alice, e se le fai notare che è precaria, che rappresenta la parte peggiore del paese, secondo chi ne tiene in pugno le sorti, di questo paese, non si arrabbia nemmeno. Sorride, chiude il ricamo con i denti, e prende in mano le forbici.

Alla parte peggiore dell'Italia piacciono le persone. "Non riuscirei a immaginarmi a vivere in un'altra città che non sia Venezia", spiega, "perché, tra gli altri motivi, qui le persone si parlano ancora". E mentre ascolto la sua storia, dimenticandomi del treno da prendere, del fatto che in fondo sono precario anch'io, e pure di Brunetta, si fermano di continuo persone diverse. I vicini anziani, che le chiedono se ha ritrovato le piante rubate il giorno prima, turisti stranieri affascinati da chi sa ancora lavorare con le mani, amici a progettare vacanze future, signore che a rivedere Alice che cuce riacquistano la voglia di farsi da sole una gonna, "modello unico", assicurano. Alice non riuscirebbe a stare in un'altra città che non sia Venezia, dove le persone comunicano ancora con foglietti affissi al portone di casa, come ha imparato a fare anche lei per ritrovare la sua pianta di basilico sottratta nottetempo (c'era anche un vaso di menta, ma quello se lo son tenuti), dove bisogna adeguarsi all'acqua alta, e si è pure contenti, perché Alice "è anche pigra", dove ci si ferma "ad ascoltarsi". Convidere, riscrivere l'economia sulla base del buon senso e non sul mercato, il discorso sfora dall'asola ma prontamente infila il bottone, "in questo paese si sta dilapidando il sapere degli artigiani, che sono stati scacciati fuori dai centri e invece è qui che dovrebbero stare, in mezzo alle persone". Dovrebbero essere cucite addosso alle città, le persone e i loro mestieri.

Ecco, la parte peggiore dell'Italia se ne frega anche, di quel che dice Brunetta, e anche di quello che dice l'ipotetica parte migliore. Prima che un laboratorio, o una bottega, questo posto dove Alice cuce abiti è la riappropriazione di sè stessi, ma senza gridarlo: "Non so cosa diventerà, ma è così che lo volevo". Alice non sa cosa farà da grande, esattamente come quella bambina che ad un certo punto si ferma di fronte alle quattro teste mute di legno disposte a proteggere la saracinesca. Inizia a picchiettare i quattro capi, di differente materiale, imparando a riconoscere le teste di polistorolo da quelle pesanti, di legno. "Quello è un testone", fa notare Alice. La bambina prova a sollevarlo, allora, si sforza ma è troppo pesante, la mamma le dice che è ora di andare, ma lei indugia, insiste, fino a quando, ostinata, non riesce finalmente ad alzare la pesante testa di legno massiccio. E poi se ne va.

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