In Italia ci sono
58 milioni di abitanti e si pubblicano
55mila libri l’anno. Ogni cittadino italiano, neonati e ultracentenari compresi, è potenziale lettore di 1054 testi ogni dodici mesi. Questa cifra, di per sé, ci restituisce tutta l’assurdità del meccanismo editoriale del nostro (brutto) Paese, e non basta. Ai 55mila libri pubblicati ogni anno, di diritto vanno aggiunte le cosiddette “pubblicazioni dal basso”, ovvero
i blog, i siti personali, i wiki, che — lungi dall’essere quel fenomeno marginale che alcuni credevano essere — raggiungono ormai cifre da capogiro: se non erro, 300mila blog soltanto su
una piattaforma delle moltissime disponibili. Anche operando una selezione, e tenendo conto solo dei blog e dei wiki aggiornati con una certa frequenza, siamo ormai nell’ordine delle decine di migliaia di post quotidiani (e mi riferisco, ovviamente, solo ai post in lingua italiana). Io ho cominciato a chiedermi
che senso avesse tutto questo quando mi sono resa conto che, per leggere soltanto i blog che mi sembravano
interessanti, avrei avuto bisogno di quattro, cinque ore libere ogni giorno. A me sembra abbastanza palese che qualcosa nel meccanismo (sociale, innanzitutto) si sia irrimediabilmente guastato, che sia avvenuto un corto circuito di stampo warholiano: i famosi
quindici minuti di fama che spetterebbero a ognuno si sono trasformati in 15 volumi di scrittura. Nel momento in cui esistono
più scrittori che lettori è evidente che il senso della letteratura, della narrazione e dell’affabulazione va perduto, per lo meno il senso che
io credevo avesse. Ognuno affabula
di sé e per sé, ognuno compila il suo proprio manuale di etica e di filosofia; quello che Sartre auspicava come “progresso”, ovvero che ognuno diventasse, infine, “intellettuale di se stesso”, è accaduto: io non lo considererei un progresso, però. Anche ammettendo che
davvero ognuno di noi abbia la capacità di pensiero e di affabulazione che ebbe Sartre [...] resta il problema di come gestire un
horror pleni nel quale nessuno di noi ha più tempo né energie per fermarsi su un’idea, su una creazione e renderla patrimonio collettivo. Ognuno urla la propria idea, ognuno declama la propria fabula, e la
cacofonia che otteniamo è quella che ci ostiniamo a chiamare “democrazia”.
Tagliato con l'accetta, ripropongo sulle pagine di Ciccsoft uno stralcio del commiato di Babsi Jones dalle scene pubbliche (se ho capito bene). Una delle migliori esce dal campo di gioco, ma non è questo il punto. Babsi dice il giusto, quando coglie e sottolinea la totale sproporzione tra massa lettrice e materiale scritto. Si scrive tantissimo, soprattutto, vogliamo scrivere tutti, e la domanda inevitabile e fanciullesca, ma chi legge, poi? diventa automaticamente la sentenza sull'andazzo.
La domanda, però, può essere aggiustata e fare cambiare così la prospettiva: ma perchè dobbiamo leggere, poi? Sembra quasi che tutta questa mole di lettere impilate la dobbiamo subire, come martiri innocenti. Eppure il tasto Spegni esiste ancora, è sempre esisisto, mentre sembrano scomparsi i filtri. Nessuno ci obbliga a leggere, in generale nessuno ci obbliga a fare nulla, e dunque di fronte a questa cascata di parole basterebbe scegliere, e il problema non si porrebbe.
7 Responses to “Non parlarmi, non ti sento”