Monthly Archive for Maggio, 2008

Nostalgia

Benedetto XVI: "Provo gioia per il nuovo clima politico". Gli ricorda la gioventù nella Hitler-Jugend.

Io, quando avrò venticinque anni

Io, quando avrò venticinque anni
metterò i puntini sulle I
stenderò i panni ad asciugare
tenendo per me una parte dei raggi
di sole
rimarrò fuori un poco più a lungo
a rimirare gli alberi in fiore
ascoltando un vecchio disco consumato
che conosco ormai a memoria.

Io, quando avrò venticinque anni
sarò morbido e pulito
ascoltando quel che hai da dirmi,
capendo poi davvero
il significato dei tuoi sorrisi
e dei tuoi silenzi bianchi.

Io, quando avrò venticinque anni
avrò scoperto almeno un poco
da che parte soffia il vento
cosa è bianco e cosa è nero
avrò imparato l'arte del sogno
e la paura di cadere
cullandomi tra braccia
che sanno di rose fresche
e pura seta rossa.



Io, quando avrò venticinque anni
sarò grande abbastanza
per contenere ogni gioia
sarò forte abbastanza
per scacciare ogni ombra
raccogliendo ogni angoscia
lavandola via
con due colpi di spugna.

Io, quando avrò venticinque anni
andrò con le mie gambe
fino in cima al mondo
per vedere cosa c'è
dall'altra parte
e se ci capisco qualcosa
dopo tutti questi anni
di scuola dell'obbligo.

Io quando avrò venticinque anni
sarò più vecchio
appena di un giorno
ma il segreto è saper fingere
tenendone in serbo
oltre trecento
stappando la bottiglia
soltanto una volta all'anno.

Io, quando avrò venticinque anni
avrò venticinque anni
e sarò più vecchio di voi
e sarò più giovane di voi
comunque la vediate
mi piaccia o meno
andrà ancora così:
avrò venticinque anni.

Tirar calci allo specchio

La mezzanotte della Cenerentola nerazzurra era scattata mercoledì 11 marzo, dopo che Cappuccetto Rosso si era mangiata in due bocconi il timido Biscione versione europea. L'inspiegabile, ma in realtà scontatissimo, siluramento di Mancini si era già consumato nella sala stampa di San Siro, per mano dello stesso allenatore. E' vero, poi si è vinto uno scudetto, il più bello e sofferto di questi ultimi tre anni, ma la sbroccata manciniana aveva aperto il vaso di Pandora. La scarpetta di cristallo, delle vittorie consecutive, dei mille punti di distacco si è staccata dal fragile piedino dell'Inter che, improvvisamente, si è riscoperta normale. E quindi più nevrotica di tutti.

Mancini vince e lo cacciano

Normale, sul piano del gioco e dei risultati, lo era diventata già dall'inizio del 2008, dopo una prima parte di stagione su livelli stratosferici come prestazioni (fisiche, più che di gioco) e risultati. L'apice lo si è toccato nel derby natalizio, l'ennesima partita in cui si dimostrò che la vittoria l'Inter non se la costruiva o guadagnava, semplicemente decideva di andarsela a prendere, e la prendeva.
Nel girone di ritorno invece la squadra si è sfaldata sotto il peso di una serie quasi imbarazzante di infortuni, e di un'Europa da conquistare. Si è iniziato a giocare partite alla pari con le altre squadre di Serie A, si è smesso di correre e di imporre la propria muscolarità, e come ovvia conclusione, si è anche iniziato a perdere. L'inerzia era il carburante di una squadra a pezzi fisicamente, tenuta insieme solo dal morale e dalla dignità di chi non poteva perdere uno scudetto già vinto. Paradossalmente, penso che se Mancini non avesse sbroccato quella sera della sconfitta col Liverpool, forse avrebbero perso davvero il campionato. Quello sfogo assurdo e improvviso, e subito ricucito come se nulla fosse, ha messo alla luce un disagio che, se l'avessero lasciato circolare nei corridoi della Pinetina, avrebbe prodotto altre figuracce. I riflettori sui malumori interni, sono stati il collante che ha evitato la caduta verticale. Il crollo c'è comunque stato, ma una Roma adolescienziale non ha saputo approfittarne, tanto che più di vittoria dell'Inter, si dovrebbe parlare di sconfitta giallorossa.

Spalletti

L'aspetto forse più affascinante di questo campionato è stato il suo intrecciarsi a doppio filo con le vicende tragicomiche nerazzurre. Siamo stati un po' tutti osservatori di un'Inter incapace di accorgersi di quello che era ormai evidente: che l'incantesimo era, non dico finito, ma sospeso.
Fino all'ultimo (derby perso con il Milan, pareggio con il Siena) hanno voluto affidarsi all'inerzia, quasi che si dovesse vincere per volere divino, per manifesta superiorità nei mezzi e nelle intenzioni, ma non nella pratica. L'Inter si sentiva forte, ma non ha saputo rendersi conto che stava perdendo uno scudetto, che era ritornata normale. Sabato sera, mentre ero impegnato nella trasferta di lavoro ravennate, ho visto sventolare bandiere nerazzurre nonostante la Coppa Italia l'avesse vinta la Roma. Il simbolo di una stagione in cui si doveva vincere e si è vinto, di una convinzione irriducibile che va aldilà del campo, del gioco e del risultato e rasenta il patetico. Scene simili di una convinzione radicata all'interno della propria fazione che si afferma sulla Realtà, se ne sono viste anche nella Roma seconda ma "moralmente prima". E' un calcio identitario, dove persino i risultati sono scavalcati dall'umore delle sue componenti: i tifosi integralisti, i calciatori piagnoni, le società schizofreniche. Vincere non è che non basta più, semplicemente è un corollario alla messa da celebrare, diventa relativo, interpretabile e manipolabile. E dunque si gioisce se si sprecano occasioni, si licenziano allenatori vincenti, si sprecano ulteriori miliardi per perfezionare il perfetto. Un calcio onanistico dove si gioca in 11 contro se stessi.

Essere John Terry.

Accomunati dalla passione per il calcio e per il Manchester United siamo andati al Druid’s Rock a vedere la finalissima di Champions League.

 Adulti abbastanza, noi quattro, da dover venire a patti, almeno a volte, con quello che più si attiene all’età adulta: moralità, serietà, coerenza, attaccamento alle solide basi del reale. Eppure presenti davanti al Manchester United come cerbiatti o stambecchi attirati al ruscello. Non si può non amare il Manchester United, se quel pallone che rotola sta alla tua vita come i globuli rossi al sangue.

DruidNon c’è molto da fare al Druid’s Rock: non servono da mangiare, non c’è grande fantasia nel menu, anzi non esiste proprio il menu. Però ci sono le sciarpe delle squadre di calcio incollate sul soffitto di legno, ed è stupenda quell’arcata, c’è la bandiera del Galles, un sacco di locandine dei film, vecchie bottiglie di rum e whiskey e una foto di Russel Crowe al bancone, incorniciata, con sotto la scritta a penna, gigante, esitante: "Russel Crowe", a caratteri cubitali, così che ti resti impresso almeno qualcosa da raccontare agli amici, il giorno dopo, nonostante la birra, ehi quel pub, sapete, c’è stato anche Russel Crowe e non aveva una bella faccia. Il Druid's Rock è il locale degli inglesi a Roma. Accogliente e informale, a due passi dalla Stazione Termini. In pratica è come stare a casa, però con l’odore delle ascelle di Bobby Charlton al posto del Vape.

Ci mettiamo lì, noi quattro, in piedi, in mezzo agli inglesi, tutti inglesi, solo inglesi: il primo derby inglese della storia in una finale di Champions. I tifosi del Chelsea presenti sono in larghissima maggioranza di colore: ragazzi neri piuttosto a modo, vestiti casual. Quelli del Manchester United sono decisamente più rustici. La partita è bellissima, Cristiano Ronaldo segna e tutti ci vengono addosso: Yyyeaaah! Il Manchester United è superiore, la gente vestita di rosso comincia ad annuire: si fa a turno per andare a prendere da bere. Qualcuno resta col naso appeso verso il monitor sopra la cassa, la mano coi cinque euro a mezz'aria, mentre l'ennesimo tiro finisce fuori di poco.Wayne Rooney

Come può esserci qualcuno al mondo a cui il calcio rimbalzi addosso? Non riesco a comprendere come possa esistere una persona che davanti al Manchester United, la squadra dei ferrovieri dello Yorkshire, non si commuova, non decida di cambiare stile di vita, modi, abitudini. Il Manchester United: sono lì a tifare Manchester United e mi piace ostentarlo: sono dei vostri, odio il Chelsea del petroliere mafioso, odio il Chelsea dell’ebreo Grant, l'allenatore che non fa giocare nemmeno per un minuto il grande Sheva. Come si fa? Come si fa? E’ la domanda che gonfia le guance di tutti quando Ferguson toglie Rooney ai supplementari: not Roney! Mi aspetto di vederlo uscire dall’inquadratura, Rooney, raccogliere la felpa dalle mani del dirigente accompagnatore e comparire accanto a noi quattro, ancora sudato, puzzolente di fatica e di pioggia di Mosca, ehi guys, me l’aspetto, Wayne, l’attaccante più forte e con meno muscoli addominali che esista sulla faccia del pianeta, me l’aspetto che ci raggiunga, coi calzettoni risvoltati dentro i parastinchi e qualche parola poco gentile nei confronti del suo allenatore. Ma tutto quello che arriva è un altro giro di birre e la decisione di seguirci i rigori DENTRO, nella bolgia, nel girone infernale.



Andiamo, ci sistemiamo, c’è un gigantesco maxischermo e almeno altri dieci televisori. C'è odore stantìo di whiskey, piscio e sudore ma, su tutto, c’è un odore che riconosco, un odore che ho sentito emanare dai miei amici romanisti, domenica scorsa, durante l’intervallo delle partite, in redazione, con la loro amatissima squadra prima in classifica finalmente, e l’Inter sotto: l’odore della paura. Fisica. Dici: è calcio. No, è il Manchester United. E’ la vita. E’ il pallone. Ci sono ragazzi di 18 anni che l’ultima volta ne avevano 8 e si persero quel capolavoro comminato contro il Bayern Monaco negli ultimi due minuti di partita. Ci sono uomini che la prossima saranno troppo vecchi. Non c'è futuro, dentro al Druid's Rock. Non c'è la consolazione del: "ma in vita può succedere di peggio". E' una bugia che non consola nessuno: in vita non potrà accedere mai più nulla di tanto grave come l'eventualità di perdere la Coppa adesso.

C’è questo odore qui, lo sento, mentre le squadre sono a centrocampo a decidere la lista di chi andrà a battere per un Paese intero. La paura fisica. La paura di aver fatto tutto quel casino per niente, di aver ingurgitato dodici pinte di Guinness senza motivo: passano negli occhi delle persone immagini care, amici e famigliari, amori passati e speranze. Si sollevano fioretti impossibili: chi giura che lascerà il lavoro, in caso di. Per dio, è la Champions League! Il migliore dei presenti dovrà aspettare altri trent’anni, la nascita di un figlio, la prima parola di un nipote, per poter parlare di una gioia grande altrettanto.

Entra un ragazzo spaesato con la maglia dell’Inter: attraversa il mare rosso e blu come Mosè. E’ la paura, la paura che prende durante il vuoto d’aria sull’aereo, la paura che non lo potrai raccontare.

Sei impotente di fronte a Van der Sar che si sistema i guantoni sulla linea di porta. Non puoi fare niente per infilarglieli meglio. Gli vorresti massaggiare i quadricipiti. Non puoi. Sei impotente anche davanti a John Terry, il capitano di mille battaglie in giro per il mondo, nel fango, nella neve, sotto la pioggia, il capitano, quello lì, quello a cui ti sei aggrappato quando le cose non andavano bene, e non sto parlando del calcio, sto parlando della Vita di tutti i giorni, dammi la forza John..., il capitano, il tuo capitano, quello di cui hai la maglia, quello di cui rispetteresti la moglie, quello per il quale ti butteresti in un fosso, quello di cui hai urlato, coi polmoni di un condannato a morte, il nome da quelle gradinate maledette, domenica dopo domenica, quello che ti sogni di notte, prima di un grande match, quello che ti porti tatuato sul polpaccio destro, insieme ai Che Guevara, ai McEnroe, alle croci celtiche, sei impotente davanti a John Terry vestito di blu che scivola, cade, tira male il rigore della vita, guarda la palla sbattere sul palo, sei impotente davanti al grugnito cupo che si alza dalla gola di metà dei presenti, sei impotente, perché è stato il destino a scegliere per te, una vita fa, se farti tifoso del Manchester United o del Chelsea, è questa la tua impotenza, insieme a tutto il resto, e qualsiasi cosa, allora, al tempo, ti abbia reso rosso o blu, adesso elargisce il suo tributo, di sangue o di tossine, quel brivido ti attraversa la schiena, forse hai visto il tuo capitano fallire un rigore importantissimo, o forse hai visto iddio materializzarsi sotto forma di palo di legno, l'importante è restare concentrati su quest'impotenza, l'impotenza del carnefice e l'impotenza della vittima, sei tutto e nessuno, adesso, dirigente d’azienda e puttaniere, l'unica cosa certa è che non sei mai stato tanto simile a John Terry in vita tua, il tuo eroe, il campione che avresti sempre voluto essere, dietro le tue scrivanie oleose e i tuoi turni massacranti, bello, ricco e talentuoso, coi contratti milionari e le modelle al fianco, adesso è identico a te: a terra, disperato e chiuso in se stesso, steso sul prato con le mani in faccia, piccolissimo e insignificante, ecco che improvvisamente ti ci riconosci, improvvisamente sei tu, John Terry, hai dovuto aspettare questo per riuscirci, la tossica lotteria dei rigori; ne sappiamo tutti qualcosa, i rigori stanno agli appassionati di pallone come le cicatrici ai bambini, ma già tocca a Ryan Giggs e non c'è più tempo per pensare al resto, sei solo tu e quel gallese del cazzo, magro e ormai stempiato, sei tu, sei lui, hai i suoi stinchi, le sue ginocchia, si gratta, ti gratti anche tu, lo segui, lo anticipi, gli vorresti suggerire nell’orecchio qualche cosa, la direzione, il tuo presentimento, il sogno della settimana scorsa, oppure lo vorresti spintonare proprio al momento dell'esecuzione, dipende sempre da quel piccolo filo che da bambino t'ha fatto prendere una direzione oppure un'altra, sei Ryan Giggs o sei Peter Cech, in entrambi i casi è proprio il tuo cuore a fare questo rumore assurdo, è meglio se ti dai una calmata, amico mio, perché tanto la tua impotenza resta, e il gallese te lo dimostra, calciando il tiro di rigore più sensato, bello e pacato che ti riesca a ricordare, ah se solo sapessi battere anche tu in quella maniera; e c'è un signore con la camicia blu e gli occhiali che adesso dà le spalle al televisore e piange, piange e avrà 50 anni, piange perché è un tifoso del Manchester United e lo sa, lo sente dentro le vene secche, che potrebbe essere a un passo dalla Vittoria, perciò piange, quel signore, che a 50 anni suonati, o giù di lì, avrà conosciuto, in vita propria, ben altri motivi per piangere o gioire, eppure lo stesso piange, in silenzio, da solo, dietro gli occhiali, a Roma, e darebbe in cambio qualsiasi cosa, il conto in banca, le scarpe di pelle, il passaporto, la fedina penale; SEI quel signore, l'avresti mai detto?, sei proprio lui, lo sei stato tantissime volte in vita tua, lo sei di nuovo, ti scorre velocissimo il suo sangue negli organi e gli vorresti dire, suggerire, di ripensarci, gli vorresti prendere gli occhi e lanciarli sullo schermo, gli vorresti dire guarda!, guarda Anelka, il tuo avversario, il tuo nemico, guardalo, guardalo perché ha quella faccia lì, Anelka, quella faccia che hai imparato a riconoscere dopo migliaia di partite viste e rigori dati a favore o contro. Ha la faccia di Roberto Baggio, ha la faccia di quello che s’è sentito qualcosa, ha la faccia di uno che se li avverte tutti conficcati nel cervello i milioni di occhi che lo stanno guardando in quel momento e questa è la cosa peggiore che può capitarti, se di mestiere fai il giocatore di pallone, percepire l’enormità di quello che stai per fare, avvertire sui peli dietro la nuca tutto quel buio in cui hanno scelto di rifugiarsi quelli che come il signore del Druid’s Rock non hanno avuto il coraggio di guardare, e saranno centinaia di migliaia, perciò gli vorresti dire, a quel signore girato di spalle, che si copre gli occhi con tutti gli occhiali, di ripensarci, di guardare, perché Anelka ha la faccia giusta se sei un tifoso del Manchester United, oppure sbagliatissima, se tifi dall'altra parte, la peggiore faccia possibile, la faccia della paura, la faccia di quello che sbaglierà la mira, che fallirà il colpo, Anelka ha la faccia di quello che il rigore decisivo sa già di averlo fallito, e infatti c’è questo momento di decompressione che arriva, come quando chiudi il finestrino in autostrada a 130 all’ora e senti quel rumorino in fondo all’orecchio, ecco, senti quello stesso rumorino mentre Anelka fa esattamente quello che ti eri aspettato, che avresti voluto dire al signore con gli occhiali appannati, sbaglia il rigore, e ti dici che il calcio è una cosa che fugge via davanti ai ragionamenti del giusto e dello sbagliato, il calcio è una cosa viva che ridà la vista ai ciechi, non a caso il signore con gli occhiali ora ci vede benissimo e ha la faccia incassata dentro il collo di perfetti sconosciuti che saltano e urlano e tutti piangono perché hanno VINTO, pensi che non l’hai mai vista tanta gente piangere dentro a un pub, pensi che ci voleva il Manchester United, pensi che perfino un paralitico, davanti alla Parata Totale di van der Sar, lì dentro, al Druid’s Rock, avrebbe preso e si sarebbe alzato dalla carrozzina. Così, senza pensarci.

John TerrySe ne vanno i tifosi del Chelsea. Ne hanno abbastanza di birra e destino. Quei neri, di colore, ben vestiti. Se ne vanno, sfilano tra gli avversari estasiati: li guardiamo andare via, nella notte romana, verso Rione Monti, in discesa, verso il Colosseo, nell’illusione di poter dimenticare. Non dimenticheranno. Mai più. Dimenticheranno tutto, della loro vita, faticheranno a ricordarsi, tra venti o quarant’anni, i ricordi più belli, i nomi dei parenti, le date di nascita e di morte della gente cara, ma davanti a una casacca del Manchester United non conosceranno un istante di esitazione: impallidiranno e sapranno perché. Calceranno lattine per la strada tutta la vita, da vecchi perfino, anche se doleranno le ginocchia, e ogni volta che verrà fuori una parabola perfetta, ripenseranno al loro capitano, John Terry, che un giorno di maggio litigò col suo personalissimo destino e scese al livello dei comuni mortali. Guarderanno partite per sempre, col tempo ritroveranno il coraggio di tenere gli occhi aperti durante un calcio di rigore e prima o poi avranno anche la loro vendetta. L'abbiamo avuta tutti, la nostra vendetta, nel calcio. Perché il pallone questo fa: ti stende al tappeto ma poi ti concede la seconda occasione. E' la severa moralità di questo sport: nella nostra esistenza saranno assai di più le occasioni in cui saremo come John Terry disperato per terra. Solo a pochi eletti capiterà di gioire come van der Sar. Passeremo i nostri anni più belli piegati per la sofferenza, ma ci riprenderemo. Ritroveremo la forza di tornare a centrocampo. Pescheremo dentro di noi il coraggio per battere ancora un calcio di rigore senza scivolare. Sono solo 11 metri, soltanto 90 minuti: ma, oddio, certe volte, che fatica.

Conoscere gente sul treno

binario.jpgOgni mattina sul binario quattro ad attendere il treno, quasi sempre puntuale, ci sono le medesime persone. Nessuna di loro apre bocca con il vicino o un passante, immersa nei propri pensieri, nel battito di una canzone scandito tra le cuffiette alla moda bianche, nelle pagine di un romanzo che non può attendere, nelle tristi notizie di un giornale che parla di furti e morti per nebbia. Alle otto e trenta precise, ogni giorno, il gruppo di pendolari per studio o per lavoro si ritrova nella stessa stazione, entra convintamente per la porta principale, si tuffa nel sottopassaggio fino all'altezza del binario numero quattro, operando infine una determinante scelta di campo. Le due rampe di scale che risalgono in superficie segnano il confine tra il gruppo che ogni mattina sceglie la metà sinistra del binario, e quella che opta per la destra, senza mai cambiare la propria scelta, quasi fosse politica o legata a riflessioni profonde.
Io milito nella squadra di destra, se non altro per la convenienza forse ovvia di essere in testa al treno andando a nord, scendendo così più vicino alla stazione di arrivo. Scelta così banale da non farmi capacitare la scelta del ramo di sinistra per un pendolare qualsiasi delle otto e trenta, andando il treno in una sola direzione. Dev'essere una questione di abitudine tra chi, fin dai tempi delle medie, saliva sul pullman correndo per accaparrarsi i posti nella loggia in fondo, notoriamente la più chic per chiacchiere e quantità di ragazze, e chi si affrettava ad occupare quelli di testa perchè soffriva il viaggio. Lo sfigato insomma.
E allora eccoli qui sfilare davanti ai miei occhi, gli "sfigati" del binario quattro, indossare sempre uguali giorno dopo giorno la maschera del loro Personaggio, quasi fossero veri e propri attori che recitano la parte ogni mattina, perchè la vita del pendolare è per eccellenza ripetitiva e monotona e sembra un po' che tutti si siano calati nella parte.

Maria, 40 anni timidi e solitari, capelli lunghi, neri e sporchi, raccolti in una lunga coda sempre uguale. Gli stessi pantaloni, le stesse scarpe, la stessa giacca a vento sportiva tutto l'inverno che chissà ormai quanto puzza. Arriva trafelata con la sua mountain bike che parcheggia nel mare di catorci all'uscita della stazione, cuffione nere sony nelle orecchie, collegate anacronisticamente ad un walkman a cassette. Cascasse il mondo Maria sale sul primissimo vagone e la sua preoccupazione non è tanto trovare un posto quanto procurarsi una copia di qualche free press abbandonata sui sedili o perfino in terra. Scandagliato l'intero vagone alla ricerca del trofeo sorride tronfia con la sua copia stropicciata in mano e si siede dove capita conciliando lettura e musica.
Maria lavora a Mestre, in una toelettatrice per cani, dove viene sfruttata per uno stipendio misero in uno sgabuzzino pulcioso, sufficiente per la sua vita pendolare e la convivenza prolungata con i genitori. La sera, inforcata nuovamente la bicicletta, fa rientro nel suo appartamento, dove la stanza ancora tappezzata di poster di quando era giovane, l'accoglie per un poco di conforto prima della nuova giornata piena di stress. Mai un'espressione felice, sul viso rugoso nonostante l'età, se non in quell'attimo in cui si aggiudica il suo ritaglio di notizie quaotidiano, il suo cordone ombelicale con il mondo che gira veloce, fuori della carrozza numero uno.

Michele è una persona riservata e gentile. Un uomo d'altri tempi garbato e vestito di tutto punto, sia con pioggia che con il sole. Svolge il suo compito con meticolosità, dal giorno in cui l'hanno chiamato a Padova per una cattedra alla facoltà di Economia: zainetto in spalla con libri e ombrellino portatile, gilet e occhiali da sole, talvolta un cappello da uomo, quasi più un ometto in gita che un professore. E' benvoluto dagli studenti che vedono in lui una persona onesta, seppure agli esami non faccia sconti a nessuno, tantomeno alle rampanti padovane che esibiscono la mercanzia sperando in qualche sconto. Il prossimo anno verrà assegnato altrove e cambierà città, treno, aria. Forse sceglierà il lato sinistro del binario in un impeto di ribellione verso la sua vita ordinata.

Giulia è una studentessa di Padova minuta e piena di ricci. Il viso duro le conferisce un'aria attenta e corrucciata, talvolta celata da giganti occhiali da sole alla moda. Abbina scarpette trendy a borsette originali e colorate da mercatino, alla lettura di romanzi pesantissimi e saggi sociologici da pochi soldi, dovuti forse agli studi, per antonomasia in Psicologia. Le parole Studentessa, Padova e Psicologia rappresentano forse il più grande clichè del mondo accademico italiano dopo Studente, Bologna, Nonfauncazzo.
Giulia ha un iPod nero, al quale ha abbinato cuffie dal filo nero, perchè è nata negli anni '80, o perchè si sposa bene il colore e quel bianco apple non l'ha mai potuto soffrire. Ascolta rock d'oltremanica, e qualche cantautore italiano di sinistra, ma con moderazione, perchè diligentemente trascorre la sua ora di viaggio evidenziando dispense o ricopiando appunti su un quadernetto ad anelli. Nel imperfetto equilibrio pendolare femminile delle otto e trenta la vediamo scendere a Padova e restituirci al suo posto una quindicina di colleghe che dalla città patavina migrano ancora più a nord inseguendo l'agognato pezzo di carta e un futuro posto fisso. Giulia odia le pettegole venete che parlano solo di Amici, prodotti per capelli e icone pop. Sarà per quello che quando salgono loro lei scende e il tragitto per l'università lo compie a piedi scegliendo di esser sola piuttosto che mal accompagnata.

Gianni ha l'aria baldanzosa di chi la sa lunga, la boria sicura di chi è stato in vacanza proprio dove andrai tu, che conosce perfettamente lo sport che pratichi, è esperto dei tuoi hobby e dall'alto dei suoi cinquant'anni abbronzati le ha già viste tutte. Forse per tali motivazioni Gianni ogni mattina riesce ad occupare l'intero spazio tra le colonne a metà binario e la linea gialla da non oltrepassare, gonfio del suo ego oppure a causa del suo zainetto ingombrante tenuto su una spalla sola come un ragazzino figo di prima liceo. I passanti devono aggirarlo sull'interno, strabordando sulla banchina del binario tre o scegliere di cadere sulle rotaie e poi risalire oltre sperando che il treno non passi proprio in quel momento.
Gianni è sempre vestito elegante perchè il suo posto in banca lo esige, mentre la scelta delle cravatte vistose è del tutto sua, così come il cappellino firmato che indossa con l'aletta in su appena calzato sulla testa che gli conferiscono l'aria di un anzianotto Carletto. Gianni trova sempre posto sul treno, trova sempre un giornale sul sedile, qualcuno che conosce con cui chiacchierare nel breve viaggio verso la stazione successiva dove scende ogni mattina. Gianni è il re nudo del binario quattro, lato destro, ma nessuno gli ha mai fatto notare che a lui sarebbe più utile scegliere il sinistro, maggiormente vicino all'uscita nella sua stazione di arrivo. Un giorno ribelle forse lo cacceremo dal nostro territorio, facendolo passare sulle rotaie.

NdA: ogni riferimento a cose, luoghi, persone NON è puramente casuale ma in buona parte frutto di fantasia.

Il contrario della fede.

Sentimi bene: si chiama scopare.
Amore si chiama ma, dalla faccia che fai e dalle parole che dici, mi par di capire che il concetto ti sfugge.

Allora Vecchio, mettiti qui, a sedere, cuccia, sitz, stai buono un attimo e parliamo dell'amore, del sesso. Tu ed io, Vecchio, sfilati le scarpucce Prada e parliamo. Dici: "Se l'esercizio della sessualità si trasforma in una droga che vuole assoggettare il partner ai propri desideri e interessi, senza rispettare i tempi della persona amata, allora ciò che si deve difendere non è più solo il vero concetto dell'amore, ma in primo luogo la dignità della persona stessa".

Vecchio, cazzo dici?
Fermo, stammi a sentire. Il problema di quelli come te è che parlano senza sapere, solo perché ci sono milioni di rincoglioniti che vanno pazzi per questo accomondantissimo nulla. Quelli ti piazzano in braccio il loro primogenito e buonanotte al secchio.

A parte il fatto che le droghe dovrebbero essere un diritto di ogni libero cittadino che si trovi costretto a vivere in questo mondo di merda, ti voglio anche dire che "l'esercizio della sessualità", come lo chiami tu, non assoggetta manco per un cazzo il partner ai propri desideri, perché, in genere, a letto - sai quella cosa morbida su doghe di legno che tu usi solo per dormire - il partner è d'accordo, altrimenti si chiama violenza sessuale e lì interviene la magistratura. In più, Vecchio, tu dai aria alla bocca quando parli di "rispettare i tempi della persona amata": si vede che non sai di che minchia vai cianciando, perché, Vecchio, rispettare i tempi della persona amata, nel sesso, quando si scopa, in genere è complicatissimo, è vero, hai ragione tu, qualche volta non si riesce a fare, ma ciò che tu chiami peeeeeeccaaaaaato moooooortaaaaaaaaleeeeeee noi lo chiamiamo eiaculatio precox.



Vecchio, faresti meglio, secondo me, senti che ti dico, a farti una birra, metterti in blue jeans e provare in prima persona quello di cui vai dicendo tutto tremante: il sesso è una cosa niente male. Non sarà all'altezza di un gol allo scadere o di un piatto di pasta fatto come si deve, ma non è nemmeno un mastino napoletano senza guinzaglio.

"Nessuna tecnica meccanica può sostituire l'atto d'amore che due sposi si scambiano come segno di un mistero bla bla bla": Vecchio, ma chi te li scrive questi testi? Tuo nipote seienne? "Tecnica meccanica"? Era ai vibratori che pensavi? Ai d i l d o? Oppure a quei letti da motel che vibrano tutti se ci infili una moneta?

"L'amore coniugale [...] non soggiace al solo sentimento, spesso fugace e precario, ma si fa carico dell'unità della persona e della totale condivisione degli sposi che nell'accoglienza reciproca offrono se stessi in una promessa d'amore fedele ed esclusivo che scaturisce da una genuina scelta di libertà".

Bum. Ma, Vecchio, santo il cielo, davvero credi che l'amore sia qualcosa di così fisico, controllabile, scaricabile dalle tasse? Cosa pensi che sia, l'amore? Un ficus d'ufficio? Un lombrico? Un tegolino? "L'amore coniugale non soggiace" Vecchio? "Una promessa"? E per chi ci hai presi? Un cartone animato? L'hai mai trovata a letto con un altro? Sei mai stato donna, Vecchio mio, e hai mai provato a vederlo violento, dopo il lavoro, rinchiudere lo stress nei pugni stretti e scaricarli sui tuoi fianchi di madre? No, che non sei mai stato donna: tu non lo sai nemmeno lontanamente cosa siano le donne. Ho più consapevolezza io della fisica quantistica e dell'ingegneria nucleare. Perché parli, Vecchio? E' quasi estate, comincia a fare caldo, perché non segui anche tu i consigli che sono soliti elargire i telegiornali e ti infili nel reparto surgelati di un bel supermercato?

"Separare la sessualità dalla procreazione è sbagliato ed espone al rischio dell'infelicità". Vecchio, sentimi bene, tu hai bisogno di aiuto. Se mio nonno dicesse cose così al vento primaverile, io parlerei nell'orecchio dei miei genitori e li convincerei ad internarlo a Guantanamo o qualcosa di simile.

Vecchio, ormai s'è detto di tutto sull'argomento e io non voglio tornarci, però, Vecchio, quello che tu dovresti capire è che è molto facile fare la madre con l'utero altrui, tu questo dovresti fartelo tatuare, li tatuano i Vecchi come te?, non lo so, magari mi informo, un bel tatuaggio sul petto e via, vergato alla rovescia, come nel film "Memento", così ti ritorna in mente ogni volta che ti fai una doccia o ti radi la barba allo specchio.

Vedi Vecchio, ora ti racconto questa cosa: una volta in una trasmissione, mi pare al Festival di Sanremo, l'hai mai visto il Festival?, ecco, come ospite c'era Sharon Stone, una di quelle ipnotizzate del cazzo, non mi ricordo bene se da Scientology o dalla Chiesa Cattolica, vabbè, siamo lì, comunque la Stone, quella che accavallò le gambe consegnando la patonza alla storia dell'umanità, intervistata da Baudo o chi per lui, se ne uscì, tutta piangendo, che lei, non so in quale occasione, era quasi morta e poi tornata alla vita e, incalzata dalle domande, rivelò che il Paradiso, l'Aldilà, come lo vuoi chiamare, non era un fatto di luce o roba simile: "E' tutta una questione d'amore", disse la Stone. E a me questa frase colpì molto, mi commosse, arriverei a dire, perché trovai molto plausibile che il presunto Aldilà potesse riassumersi esclusivamente in un concetto d'amore. Quel che interessa a noi, tuttavia, vero o non vero, plausibile o non plausibile, è che il concetto di "assoluto amore" può andare bene per l'Aldilà, per ciò che esiste, se esiste, dopo la vita, e NON per la Vita Stessa.

Tu, Vecchio, ci infili questo discorso dell'Amore e della Pace ogni due per tre e non va bene, non in questa vita: questa vita, la nostra, per definizione, è prima di tutto una questione di sopravvivenza, di fame e di sete, di contratti a tempo indeterminato, di lavoro, di violenza, di morte, di solitudine, di droga, di depressione, di povertà, di malattie indicibili e nuove, di catastrofi naturali. In questa vita, fatta di queste cose, tu non puoi dire che "separare la sessualità dalla procreazione è sbagliato e porta all'infelicità", perché non lo sai in che razza di vita si va a infilare una potenziale nascita. Se riduciamo tutto a una questione di Amore, come diceva la Stone parlando dell'Aldilà, tu fai pornografia sentimentale da due soldi, per la quale è vero tutto e il contrario di tutto. Mi capisci, Vecchio? Separare la sessualità dalla procrezione non solo è legittimo ma molte volte diventa necessario, obbligatorio: perché QUI, dalle nostre parti, sulla terra, la questione "amore" occupa, tristemente, le ultime posizioni della scala gerarchica che porta alla sopravvivenza.

L'amore non è dogmatico, anzi: se ci pensi bene, Vecchio, l'amore è proprio tutto il contrario della fede.

L'amore ha bisogno di continue prove, riprove, controprove, carezze, sangue, urla, carne; l'amore ha bisogno di tutto quello che ci sta dentro quelle sacche di sangue che sono gli esseri umani: della loro ritrosia alla coerenza, della loro ipocrisia; l'amore si nutre, fisicamente, della minutaglia quotidiana, delle salite e delle discese, di tutti e cinque i sensi, dell'odorato, della vista, del tatto, dell'udito, della voce, dei capelli, dei pori, del sudore, della lanuggine dentro l'ombelico, del solletico, delle lacrime e della violenza, l'amore succhia dai difetti, dalle differenze, l'amore è sesso, godimento, eiaculazione, l'amore è amore pure se in quel momento lì un figlio diventerebbe una maledizione. L'amore è sapere rimandare. L'amore sa quand'è il momento giusto. L'amore non è dogma: l'amore, in quanto tale, è una cosa che inizia e finisce e che continua fin tanto che si vede, si sente, si percepisce.

Perciò Vecchio, tu che parli tanto di amore e di sesso, perché non pensi a misurarti la pressione e a lasciar fare a noi, che siamo fortunatamente ancora in vita, e non nell'aldilà della Stone, e che dunque d'amore viviamo e per amore prendiamo le nostre scelte più importanti? Il problema, Vecchio, è che tu sei invidioso, secondo me. Il tuo amante, diciamocelo, non è proprio il massimo in quanto a comunicazione, sensibilità e presenza. E allora ci vedi, ci guardi, noi innamorati, amanti, amici, dentro le pizzerie, davanti alle birre, alle prese coi nostri giganteschi e bizzarri cazzi di tutti i giorni e non ti capaciti che la vita possa essere così semplice e complicata al contempo. L'amore è una questione di millesimi di secondo, altro che di Eternità.

Provalo a chiedere a un interista, vecchio, perché in questo periodo non ha la voglia di fare un figlio e poi prova a trovare il coraggio di dirgli in faccia che ha peccato.

Per chi suona la campanella

Berlusconi riceve la campanella da Prodi.

Romano: Eheheh... Eddai Silvio, fammela tenere per altri cinque minuti... Dai! Poi tu chissà per quanto te la tieni... Eheh... Guarda Silvio, non ci sono nemmeno le ditate sopra... Eheh... Li lasciavo sempre parlare tutti quanti... Silvio dai... Altri cinque minuti... Fammi risanare ancora un po' i conti pubblici... Eheh... Eh Silvio?

Silvio: No.

Le hanno dato un’Opportunità

Rachele mi fa giustamente notare: cosa c'è di più Pari Opportunità che affidare l'incarico di ministro ad una donna qualunque, priva di competenze politiche di alcun tipo?

Facci vedere il tuo ministero

Alla fine, Mara Carfagna, ce l'ha fatta.

Ore 10.30. Nubile.

[scritto da Simona, donna]

Mi ricordo le mani. E le venuzze che gli si gonfiavano sulle tempie quando si arrabbiava.

Mi ricordo ogni centimentro della faccia e le diverse sfumature dei suoi occhi.
So perfettamente com'ero vestita la prima volta che l'ho visto, quante sigarette ho fumato e cosa c'era scritto sul post-it attaccato allo schermo del computer.

Colloquio per fare la segretaria amministrativa in un'azienda di ricambi per auto. Una grossa. Azienda. Di ricambi per auto. Con sedi in tutta Italia. Loro sono in due: il capo-filiale con le sue venuzze ed il responsabile di zona del nord-est.

Dopo mezz'ora il lavoro è mio: me la chiacchiero bene, nulla da dire. Anche a scuola era così: liceo classico, voti ottimi, mai una versione a casa. Me la chiacchiero proprio bene. All'inizio va che è una meraviglia; lui, il capo filiale, con le sue mani, è simpatico e paziente, si congratula per la velocità con cui imparo, è indulgente per gli errori. Si ride, anche; ci si racconta. Oltre a noi ci sono due colleghi che però vanno spesso in giro per i servizi a domicilio; simpatici pure loro. Tutto perfetto.

Dopo un mese circa, cambia la musica; le venuzze cominciano a gonfiarsi all'improvviso e per un nonnulla. Basta un timbro messo in un punto sbagliato della scrivania e si scatena l'inferno. Insulti e grida. Io, sorpresa arrabbiata triste, mi chiedo dove sia finito quel signore simpatico che mi ha fatto il colloquio: questo tizio non è lui, è solo uno che cerca di farmi piangere ma che non ci riuscirà.

Andare in ufficio è come camminare sui carboni ardenti: combattere tutti i giorni con l'isteria di frasi cattive ("fammi un bocchino", "perché non la dài a quel cliente, così lo facciamo contento", "non capisci un cazzo") ed attenzioni da fidanzato adolescente, tipo che mi viene a prendere a casa senza che io l'abbia chiesto, anche perché un fidanzato ce l'ho già, lo amo e - guarda un po' - me lo sposerei domani, quindi grazie dell'offerta, ma prendo l'autobus.

Ormai è chiaro che i centrimetri della sua faccia si sono presi una cotta per me, però c'è una modalità ossessivo-compulsiva nel manifestare l'interesse che col corteggiamento non ha niente a che fare: alterna momenti di estrema calma, (momenti in cui, manco a dirlo, io credo davvero che tutto sia tornato a posto; retaggio di un passato che ha spostato i limiti della mia sopportazione un paio di abissi oltre il buon senso) ad altri di rabbia per la sua vilipesa mascolinità.

Nel frattempo reagisco, è ovvio: quando mi si avvicina, quando urla, quando mi dice che sono una troia. Parlo con il super boss del nord est, il quale cerca di appianare le cose, che però non si appianano. Parlo allora con altri responsabili di responsabili di responsabili. Nessuno muove un dito.

Finché arriva lo strappo: un telefono tirato in testa. E la settimana dopo una spalla lussata. Mentre salgo sul taxi che mi porta in ospedale, mi ordina di dichiarare che sono finita contro una porta; faccio di sì con la testa e intanto penso: "Col cazzo...".

Mi licenzio il giorno dopo: sono in infortunio, vivo da sola, devo mantenermi; ma non voglio comunque i soldi di quello schifo di Azienda. Un amico avvocato mi spinge a denunciarli: la società, lui, le sfumature dei suoi occhi. Mi lascio convincere solo perché ho i colleghi pronti a testimoniare, so come vanno queste cose, le umiliazioni che devi passare: ho già dato, grazie. La peggiore, di umiliazione,  è quello sguardo: una donna che ha subìto molestie lo riconosce subito, anche perché spesso segue la domanda, che spiega quello sguardo. "E tu che hai fatto per provocarlo?". Ecco perché non se ne parla mai abbastanza. Perché non si hanno risposte adeguate ad una domanda così. A parte inviti a recarsi in un posto che finisce per "ulo".

In buona sostanza vinco: o meglio, lui patteggia per la denuncia di mobbing e molestie sessuali.



Chiedo il rimborso dei due mesi di stipendio persi causa spalla e delle spese legali. Non voglio altro. Tanto sono sicura che adesso verrà sbattuto fuori dall'Azienda e questo mi basta per pensare che c'è giustizia. E poi continua il processo penale per l'infortunio, quello va avanti d'ufficio, è lo Stato contro di lui (anzi, contro la Società) ed io figuro come testimone.

Sono passati sette anni.
Lui è ancora il direttore della filiale di una provincia benestante e bacchettona del nord Italia. Nessuno mi ha mai chiamato per scusarsi. Signorina, buongiorno, sono l'amministratore delegato dell'Azienda, volevo manifestarle la mia solidarietà per quello che ha passato: ho una figlia anche io, ho una moglie, una zia, una madre, un'amica, una donna che amo e mi vergogno a pensare che possano esistere realtà del genere sotto il mio naso. Quanto l'ho sognata, questa frase.

Adesso ho un nuovo lavoro, o meglio, ce l'ho da sei anni. Sono brava, nel mio lavoro, lo faccio bene. Sono un direttore commerciale, seguo altre cinque persone dell'ufficio vendite. Giro l'Italia e gestisco i clienti più importanti. Insomma, mi sono impegnata tanto e i risultati si vedono.

Un paio di mesi fa, in qualità di consulente tecnico-commerciale, vengo chiamata per supportare un mio cliente che deve proporre un grosso impianto di videoconferenza. Proprio a quell' Azienda. L'appuntamento è nella sede di Milano. Fortuna vuole che cada nell'unico giorno in cui tutti i direttori delle filiali italiane si trovano lì. Per cui, durante il mio incontro di lavoro, lo vedo, sul corridoio: le sue mani, venuzze, sfumature. Lui invece non si accorge della mia presenza. Aspetto che passi oltre, mi manca l'aria. Devo uscire, ma riesco a dissimulare, sono brava anche in questo. Una volta fuori, al mio cliente (con cui comunque c'è confidenza, lavoriamo insieme da tanto) racconto a macro linee perché ad un certo punto mi tremava un ginocchio. Lui mi guarda strano.

Non ci credo.
Eccolo, quello sguardo. E la frase che segue dice più o meno che è meglio che io prenda tutta la mia bravura e me ne torni da dove sono venuta; ha paura di perdere il cliente, di non riuscire a vendere all'Azienda il progetto che IO STESSA ho preparato. Anzi, non è che ho lasciato un mio biglietto da visita, vero? Si sa mai dovesse capitare nelle mani sbagliate e qualcuno si ricordasse di quella pazza che nel 2001 ha cercato giustizia.

Infatti non ho più sentito nemmeno lui. 
La conclusione di questa storia non esiste; non il lieto fine, non un altro inizio.
Scusate se sono stata troppo lunga o troppo poco chiara. E scusate se non so come chiudere, se vi saluto così, con un angolo della bocca che punta in basso.

Comunque avevo una gonna viola, un maglioncino bianco e gli stivali in pelle. Ho fumato due sigarette e sul post-it c'era scritto: "Ore 10.30. Colloquio. S. M., 20 anni. Nubile."

[Non molto da aggiungere. Ho conosciuto Simona e, quando mi ha detto di questa storia, ho pensato che un ulteriore sfogo non avrebbe potuto farle male. Quello delle violenze sessuali, delle molestie, del mobbing compulsivo-maschilista, sono tutti temi "sociali" che mi/ci stanno molto a cuore: non se ne parla granché nelle piazze o nei Vday di questo gran cazzo, perché non fanno moda, non strappano applausi a vene gonfie e spruzzi di bava dalla bocca. Ecco perché ho voluto che lei sussurrasse qui la sua storia: continueremo così in silenzio e senza urla, su questo blog, a raccontare storie di dissenso dal basso. Perché crediamo fortemente che ci sia verità nella frase ex pluribus unum e non nel suo contrario - ndNoantri]

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Quando li abbiamo visti davanti al nostro portone in Via Solferino, capimmo subito che sarebbero andati lontano. Poi infatti sono entrati.
(Il Corriere della Sera)

L'abbiam capito subito che di sport non capiscono una borsa, anzi un borsone. Meno male che non gli abbiamo aperto la porta!
(La Gazzetta dello Sport)

Vogliono fare giornalismo ma non sono minimamente all'altezza. Piuttosto che vadano a lavorare, ragazzetti pidocchiosi!
(Il Giornale)

Ci hanno riempito di tagliandi per vincere il concorso come Gruppo dell'anno. Ma chi si credono di essere?
(La Nuova Ferrara)

Giovani, belli e poveri. Cosa volere di più? Nell'Italia di Berlusconi un sito dinamico e irriverente si fa strada come può.
(Il Resto del Carlino)

Cagnazz è il Mickey Mouse dell'era moderna e le tavole dei Neuroni, arte pura.
Topolino)

Un sito dai mille risvolti, una miniera di informazioni, talvolta false, ma sicuramente ben raccontate.
(PC professionale)

Un altro blog è possibile.
(Diario)

Lunghissimo e talvolta confuso nella trama, offre numerosi spunti di interpretazione. Ottime scenografie grazie anche ai quadri del Dovigo.
(Ciak)

Scandalo! Nemmeno Selvaggia Lucarelli ha osato tanto!
(Novella duemila)

Indovinello
Sarebbe pur'esso un bel sito
da tanti ragazzi scavato
parecchio ci avevan trovato
dei resti di un tempo passato.
(La Settimana Enigmistica)

Troppo lento all'accensione. Però poi merita. Maial se merita!
(Elaborare)

I fighetti del pc della nostra generazione. Ma si bruceranno presto come tutti gli altri. Oh yes!
(Rolling Stone)

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