Una cosa che nessuno dice, tanto per esaudire subito il mio bisogno annuale di populismo gratuito e pressapochista e scontato: la flessibilità nel mercato del lavoro è un becero luogo comune, in realtà non serve a nulla, se non a piegarsi la schiena nelle svariate ore passate al computer nella ricerca di una nuova occupazione.
È sbagliato spiegare le proprie teorie usando casi personali, lo so. Ma nel mio piccolo e parzialissimo microcosmo, e dopo qualche anno che navigo nel mercato del lavoro, ho notato sulla mia pelle come diversificarsi sia un boomerang, per chi è alla ricerca dell'unica cosa che conta, nell'ottica di un'Indipendenza: uno stipendio normale. Essere flessibili, io ho anche provato ad esserlo: ho studiato una cosa, e ho scelto di farne un'altra, e poi un'altra ancora, imparando sempre a mie spese in termini di tempo, denaro e stress mentale. Ho lavorato sia nella città dove abito, sia come pendolare. Ho fatto tirocini, e contratti più stabili. Ho imparato a fare più cose, ma non mi sono mai (ecco la parolina magica) specializzato.
E intanto il tempo passava, e oggi mi ritrovo con un'età non più appettibile per provare nuove sperimentazioni, dal punto di vista contrattuale e del datore di lavoro, un'età in cui "saper fare un po' di tutto", invece che "bene una cosa sola" si trasforma da pregio elastico a marmoreo sintomo di indecisione e vaghezza e, soprattutto, non appetibilità.
Ecco, nel mio piccolo microcosmo vedo che chi ha saputo scegliere, oggi si ritrova più libero di costruirsi qualcosa che possa quantomeno assomigliare a un "futuro". Chi invece, vuoi per indole personale, vuoi per le circostanze, ha provato a imboccare strade differenti, è condannato a un eterno presente dove persino la curiosità (scambiata da molti per "puzza sotto il naso") è diventata esecrabile. Ce n'è abbastanza per emigrare non in un altro paese, ma da se stessi.
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