Archive for the 'Personale' Category

Sensibile

Oggi ho letto un annuncio di lavoro di una ricerca di "tirocinanti con esperienza". L'annuncio non mi interessava, il punto non è esporci per le cose che ci interessano, il punto è che basta. Armato di Treccani, ho iniziato oggi a rispondere, a questi annunci, sventolandogli nella loro casella di posta elettronica la definizione di 'tirocinio' data dalla Treccani stessa. Perché basta. Ci rimane solo il vocabolario, per difenderci.

Questa la mia risposta, e buongiorno e buonafortuna.

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Leggo il vostro annuncio di ricerca tirocinanti e mi assale un dubbio. Lo rileggo:

XXX ricerca due figure per TIROCINIO RETRIBUITO.
La prima figura riguarda [...], con esperienza alle spalle, passione per [...], e con massima flessibilità di orario.

Metto a fuoco un passaggio in particolare. E mi chiedo: qual è il senso di proporre 'tirocini' per persone (cito dal vostro annuncio) "con esperienza alle spalle"? O forse la Treccani si sbaglia? Qui si può leggere la definizione di Tirocinio:

E beninteso, non sto cercando lavoro, nè conosco qualcuno interessato alla vostra ricerca. Il mio è solo un appunto all'uso dell'italiano, se mi è concesso.

Mi scuso dell'intrusione, in ogni caso.

Buona giornata.

Maturità t’avessi preso oggi: la prima prova

maturitaLa verità sulla maturità è che si tratta davvero di un esame impegnativo e al contempo non il più difficile che si dovrà superare nella vita. Lo sanno tutti quelli che ci sono già passati e lo ripetono agli studenti impauriti i giorni prima del loro appuntamento con la storia. Son quelle cose che non puoi pretendere di spiegare e che vengano comprese appieno da chi non le ha vissute, come ogni ansia, trauma, esperienza forte ed indimenticabile. Dodici anni fa sostenevo l'esame scritto, la prima prova di un cammino tutto in salita che culminava con l'orale. Per una ragione puramente televisiva la "notte prima degli esami", quella della canzone di Venditti e delle ansie degli studenti, è prima della prima, quando si deve riempire un foglio bianco con un tema o un saggio breve. Epperò la parte difficile è in realtà forse più la seconda prova, molto più tecnica, o l'ostica terza con il quizzone di tutto un po'. Finita la quale per i media italici la matura è finita e non è più argomento di discussione, mentre scatta invece il periodo durissimo dell'inutile ripassone di mille argomenti, sperando di non essere stati sorteggiati per primi e dover affrontare la commissione già pochi giorni dopo gli scritti.

La mattina dello scritto di italiano avevo lo zainetto nuovo e una camicetta che ancora conservo nell'armadio sebbene non la indossi più. Volevo lo zainetto Napapjiri come tutti i miei compagni di classe, che l'avevano ormai da 4 anni: mi venne regalato per il mio compleanno a fine maggio e fece il suo esordio a scuole finite proprio per il giorno della matura, nuovo di zecca. Sfigato.
Ho corso all'apertura delle porte quasi dovessi guadagnare un posto in ultima fila per copiare come un pazzo non si sa cosa. Dall'ultimo banco guardavo le teste chine dei compagni pensare a cosa mettere su quel foglio, sfogliare i dizionari disperati alla ricerca del lemma dove era incollato un pezzettino di bignami, sperando fosse quello giusto. Uno spettacolo che solo da dietro si poteva ammirare senza voltarsi venendo richiamato.

La distesa di cellulari consegnati sulla scrivania della commissione era qualcosa di buffo: all'epoca si potevano mandare al massimo degli sms a qualcuno collegato ad internet a casa. C'era già studenti.it e le sue soffiate, ma era davvero impresa eroica riuscire a farsi dettare un tema o interi brani di analisi del testo al cellulare in bagno. Qualche furbetto ne aveva portati due: uno da consegnare, uno da tenere nello zaino che non si sa mai. Si racconta di intere librerie di temi pronti disponibili nel bagno in alto sopra gli sciacquoni delle turche. Leggende o forse no, senz'altro mai determinanti per il risultato finale, ma necessari per il folklore, la chiacchiera e le risate prima e dopo la tensione. Si era sparsa la voce e la lista di prenotazioni per andare in bagno sfiorava il ridicolo. Mi pare fosse uscito Pavese e sul bignami dei temi fatti non c'era traccia di qualcosa sull'argomento: tutti tornavano scontenti ma almeno avevano pisciato e raccolto le idee in tranquillità. Per partecipare all'euforia generale ero andato anche io in bagno, solo per vedere se davvero c'era qualcosa da consultare in bagno, ovviamente non trovando un tubo. Forse avevo sbagliato turca, forse dovevo controllare nei portasalviette, o nei cestini. Vabbè.

Tra i temi di quell'anno uno in particolare era talmente un gol a porta vuota che non si poteva non approfittarsene. Un saggio breve sulla Musica, non ricordo con quali contorni e indicazioni, un argomento a portata di qualunque giovane studente, senza problemi di non sapere cosa scrivere. Il mio tema iniziava con un espediente grafico (un semino di follia di quello che sarebbe venuto dopo?): essendo pubblicato su un magazine musicale esordiva con la parola musica ripetuta tre volte ma scritta in modo differente. Tutto minuscolo, con la maiuscola e infine tutto in maiuscolo. E se mi avessero tolto dei punti per questa sciocchezza? Meglio chiedere. Un rapido consulto della commissione e venne concessa l'inutile licenza poetica.

Claudio, il primo della classe in ordine alfabetico, era stato scelto per sorteggiare l'ordine degli orali: in un siparietto gustoso pescò il suo nome dall'urna annunciandolo con enfasi e poi imprecando in maniera garbata davanti al Presidente di commissione esterno. Era un prete, non avrebbe gradito.

Un anno dopo c’è ancora il Bayern in finale

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Sarebbe consolatorio e molto più accettabile poter tracciare una linea per terra e stabilire un Prima e un Dopo. Sarebbe infinitamente più comprensibile, sopportabile, mettersi per terra e delimitare un confine tra quello che eravamo e quello che ora siamo. La verità è che a tracciare linee per terra non siamo stati noi, ma le fratture di un tempo che nessuno, nemmeno i più onesti e indipendenti e artigiani conoscitori del territorio potevano prevedere. E che il disegno di queste fratture non è per niente netto, definitivo, tranciante: la frattura è nervosa come molti noi quella domenica mattina, scende in strada, no risale, chiama al telefono, accende la tv. Non si capisce da dove sbuchi, fin dove arrivi, che piega prenderà. Quel disegno non riesce nemmeno lui a tramutarsi in punto fermo, per quanto tragico, per quanto sinistramente notturno, per quanto ci scarichi addosso, a noi pasciuti abitanti della Bassa, l’inadeguatezza della sorpresa, e il coraggio e la dignità del Riprendersi. Quel diagramma, ed è questa la mia personalissima verità che dopo un anno credo di essere riuscito a rammendare, non sa essere giudice, condanna, rivalsa: non c’è, un prima e un dopo, tutto è fluido e interrotto come soltanto il dondolio della tua auto in una piazzola di sosta alle 4 del mattino. Nulla scrissi, un anno fa, per una serie finita di motivi. Un anno dopo, mentre tutti linkano lodevoli e meritevoli video commemorativi, infarciti però di musiche inoppurtanamente pop (come se un terremoto fosse la vittoria dei Mondiali, maledetta sindrome da YouTube), decido ancora di non raccontare. Fu qualcosa di così invisibile, per chi ebbe la fortuna di trovarsi appena qualche km fuori dall’epicentro, e proprio per questo se n’è parlato per giorni, settimane, mesi. Tentavamo tutti di acchiappare la parafrasi giusta che illuminasse quella parte buissima in cui siamo finiti, per qualche secondo, noi pasciuti abitanti della Bassa appena qualche km fuori dall’epicentro: non ci crollò nulla in testa, e quello che abbiamo vissuto è talmente invisibile che raccontarlo lo tramuterebbe in Altro. Cosa rimane, allora? Circa 10 minuti dopo la scossa entrai in un autogrill, ero solo, ancora faceva buio. Mi ritrovai circondato da tifosi bavaresi del Bayern Monaco, qualche ora prima avevano perso la finale di Coppa dei Campioni a casa loro. E confesso, per qualche secondo, la cosa più straniante del terremoto non fu il terremoto ma il ritrovarmi tifosi bavaresi in un autogrill. Nessuno di loro pensava alla scossa, e anche le cassiere del bar proseguivano inermi a servire caffè. Quando un terremoto viene a trovarti e tu sei da solo, non ti sembra un terremoto, ma un modo di ricordarti dove eri finito. Io ero in un autogrill, da solo, abbastanza lontano da casa. Più che un punto, furono due punti: e tre, e quattro, e tutti quelli che ci cadono addosso dai cornicioni tutte le volte che proviamo a tornare a casa, nell’unico modo che conosciamo: tremando.

Albina

Bina era una piccola signora che viveva ai margini della piazza, la sua storica rivendita numero uno di Sali e Tabacchi l'ultimo avamposto prima di finire tra i vicoli semi deserti del paese vecchio. L'ultimo baluardo di vita pubblica dove da bambini ci si spingeva per acquistare qualche sciocchezza con gli spiccioli rimediati dalla nonna, dall'aver servito a messa, dai risparmi delle feste.

Bina si chiamava in realtà Albina, ma io l'ho saputo che già ero grandicello, e mi faceva un po' ridere questo nome desueto, come desueto è il termine desueto. Una decina di anni fa, non ricordo di preciso, l'avevano persino nominata Cavaliere del Lavoro, che un po' come ricevere un Oscar alla carriera, un riconoscimento per il servizio reso al pubblico durante una vita. La sua piccola bottega era quasi una cantina, un grottino zeppo di oggetti e cibo, alcuni invenduti da anni, altri accostati quasi a casaccio tra i generi di prima necessità, i tabacchi e i liquori, oltre al nutrito reparto caramelle e dolciumi.

Da Bina ci andavi da bambino a comprare le gigomme, che nel nord italia chiamavamo cicche, o chewingum come gli americani. A volte ci andavo con Alfonso, che abitava poco distante: quando aveva fame si mangiava una gigomma e non si capiva di che si sfamasse visto che notoriamente le gomme da masticare non si dovevano ingoiare. Da Bina ci tornavi da ragazzino per le patatine o una lattina di bibita, e a volte nei sacchetti delle patatine trovavi la sorpresa, che non era il pupazzetto o l'anellino ma il fatto che erano scadute da qualche mese. Chissà da quanto tempo le teneva sotto il bancone! Poi da Bina ci andavi ancora da grande, per comprare le sigarette di nascosto, e tutto si basava sulla sua complicità, in un silenzio mantenuto con i genitori quando sarebbero passati di lì per comprare il latte o il caffè. Quante cose sapeva Bina.

Bina non teneva sempre aperta la sua rivendita: a volte nevicava molto, o non c'era nessuna signora che la veniva a trovare per fare due chiacchiere quando si era fuori stagione, e allora stare in negozio da sola era noioso. Bastava però bussare alla porta di casa, appena dall'altro lato della piccola strada per chiamarla e farla scendere ad aprire solo un momento. Eroica, ad ogni ora. Dopo pranzo, dopo cena, mentre faceva il riposino o era in bagno, Bina era sempre disponibile. Scendeva le scale a volte un po' contrariata chiedendo "Che devi piglià?" e quella frase mi suonava sempre come "Sicuro di averne proprio bisogno ora da venirmi a chiamare a casa?". Così rispondevo timidamente sperando che reputasse sensata la mia richiesta. Potevi chiamarla se avevi finito il latte, lo zucchero, di certo non per caramelle gommose o boeri. I boeri erano dei cioccolatini con il liquore dentro che quando li aprivi sull'involucro ti diceva se ne avevi vinto un altro o altri due. Per anni non mi ci sono avvicinato perché erano cioccolatini da grandi un po' alcolici. Poi quando ne ho provato uno il liquore non c'era mica, forse era evaporato nel tempo, chissà.

Bina teneva anche le cartoline. Era l'unico posto con le cartoline in paese, così quando veniva qualche parente o amico da Ferrara e voleva mandare delle cartoline lo si mandava da Bina. Poi tornava a casa un po' incredulo perché le uniche disponibili risalivano agli anni Sessanta, c'erano le Prinz parcheggiate in piazza, un sacco di gente e posti oramai chiusi. Addirittura alcune erano in bianco e nero, accartocciate dal sole e dall'umidità. Andavano alla grande in paese le cartoline! Più avanti è arrivato il Parco Nazionale, ne ha distribuite alcune di nuove con flora e fauna locale, le vedevi nel distributore in mezzo alle vecchie che pure resistevano, e a quel punto comprarle diventava perfino interessante: oggetti vintage da mercatino che oggi farebbero furore tra i collezionisti.

Bina era un po' un piccolo mondo pieno di meraviglie, una wunderkammer di ninnoli curiosi che poco ha a che fare con i moderni bazar dei cinesi. Se gli adulti facevano la spesa da Fioretta, i ragazzini avevano bisogno dei generi che vendeva Bina, e non mancavano di sostare ore in chiacchiere sui gradini sotto casa sua, quasi fosse un secondo bar, senza i vecchi che giocavano a carte e la puzza di fumo a rovinare gli amaretti esposti.

Ora che anche Bina riposa in cima alla salita dell'aia, con Fioretta, Diamante e gli altri personaggi che hanno riempito le nostre giornate negli anni Ottanta facendo la storia di un piccolo paese di montagna come Villa Santa Lucia, ci sentiamo tutti un po' più adulti e un po' più soli. Si chiude un'epoca: quella di quando eravamo piccoli noi e ci chiedevamo come sarebbe stato tra vent'anni questo posto. Dopo che anche il bar ha abbassato le serrande ora la piazza sembra vuota per davvero e a chi come il sottoscritto ha fatto in tempo a vederla ancora piena di persone, lascia un po' l'amaro in bocca.

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2012 Poi salterò nel tuo stress

Il 2012 (a Ferrara e non solo) è stato anche l'anno in cui abbiamo imparato a stare fermi, tremando.

12-12-12

Oggi è il 12-12-12, una data che capita una volta soltanto ogni cento anni. Non che sia particolarmente pazzesco, l'anno scorso c'è stato l'11-11-11, e così via l'anno prima. Senz'altro non ci sarà il 13-13-13 l'anno prossimo, quindi bisogna aspettare il nuovo secolo per ripetere il giochino. Questa mattina non ci ho dato troppo peso e le 12.12 del 12-12-12 mi hanno colto impreparato mentre stavo organizzando il materiale per il restyling del sito della mia pittrice preferita, peraltro forse il primo sito che abbia realizzato in vita mia, se si esclude questo nella sua forma originale (1997). Ma non importa.

Poco fa ho trovato su ilpost.it questo frammento qui sotto del New York Times di cento anni fa che dice tra l'altro:

Per coloro che si dilettano in questo genere di svaghi, oggi è un giorno da celebrare scrivendo un bel po’ di lettere e datandole, tutte e ciascuna, 12-12-12. La sequenza dei dodici è veramente un’offerta che vale un giorno solo e non ritorna. Quelli che oggi rimandano il momento di scrivere, non ne avranno mai più l’occasione finché vivono!

Allora ho pensato: che bello, potrei scrivere qualcosa per celebrare questo momento inutile e tramandarlo ai posteri, sempre che tra cent'anni io abbia posteri che leggono questo blog e qualcuno ancora lo scriva al posto mio. Visto che questo giorno speciale è stato piuttosto ordinario lascerò solo un appunto per ricordarmi di questo momento.

Cari posteri, oggi ho 29 anni, sono seduto alla mia scrivania nera comprata all'Ikea, come si usa in questi anni, e vi scrivo dal mio iMac, come si usa in questi anni. Ho cucinato poco fa un'ottima pasta che si chiama Obst Special (che non è altro che farfalline con tonno capperi e peperoncino). Ora sono un po' pieno. Oggi è esploso il router e sono andato a comprarne uno nuovo, dalla forma tondeggiante ed avveneristica. Sono ancora tra quelli che scrive ed se la parola dopo inizia con la vocale. Poi ho lavorato tutto il pomeriggio e andrò avanti questa sera.  Ho uno studio grafico e una partita iva, un commercialista, un'auto nuova. Ho mal di testa da quasi un mese ogni giorno e lunedì mi faranno una risonanza per capirne di più. Sto per imbarcarmi in un'avventura più grande di me che sognavo da troppo tempo per attendere ancora invece di provare a realizzarla. Sono tornato da pochi giorni da Lione. Sono andato in aereo, quest'anno ne ho presi sei. Vi sembreranno pochi ma non ne ho preso nemmeno uno per paura per tredici lunghi anni e ho ripreso solo l'anno scorso. Qualcuno che oggi si è fatto un grosso tatuaggio sul braccio mi ha fatto notare che è già ora di fare il consueto video con le foto dell'anno e che in quello scorso dal momento in cui spunta Lisa inizio a sorridere in tutti gli scatti. Pensavate me ne fossi dimenticato, ma era solo un artificio letterario! Lisa è in effetti quella persona che mi fa sorridere ogni giorno mentre corro come una trottola cercando di non dire di no a nessuno. E' quella che mi sopporta quando mi lamento, che mi conforta quando mi abbatto, che mi apprezza e sostiene quando faccio qualcosa di buono. E' la prima che mi dà il buongiorno e l'ultima a darmi la buonanotte, è la persona speciale che con leggerezza e semplicità mi ha conquistato giorno dopo giorno, che amo tantissimo e di cui cerco di prendermi cura nel mio piccolo. Tutto qui. L'amore è una cosa semplice e spontanea che non necessita di troppe spiegazioni. E poi chi è Lisa, cari i miei posteri, spero lo saprete già molto bene e conserviate un buon ricordo di lei.

e.

 

We’ll let you sapere

Ricevo questa missiva dopo una trafila di colloqui vari. Colpisce l'uso sapiente di un italiano very smart:

Buongiorno,
ci tenevo a darle un riscontro relativo al processo selettivo a cui ha preso parte: purtroppo il cliente l'ha ritenuta troppo junior a livello di competenze.

Alla base c’è il calcio

E' già ottobre e per la prima volta da sempre, credo, non ho ancora visto una sola partita di calcio del campionato. Allora ho messo tutto insieme e ho scritto una cosa per Someone still loves you, Bruno Pizzul.

Ottobre mi piove addosso senza che io abbia ancora visto una partita che sia una del campionato italiano di calcio. Ho sbirciato dal buco della serratura qualche gol (che so, il tiro al volo di Miccoli da 30 metri, o la rovesciata di Osvaldo), ho intravisto dal finestrino la parata con colpo di tacco di Agliardi o tutta la rugosa perplessità di Zeman, ho letto seduto sul water del siparietto di Allegri e Inzaghi o dell'insopportabile postura da studente di master di Stramaccioni, che invitava non so bene chi a sciacquarsi la bocca. Poi, nient'altro. Ottobre mi piove addosso, e per asciugarmi ho soltanto qualche pagina di Televideo (le solite, peraltro, da piccolo ne imparai prima la numerazione che le tabelline a scuola) rubata a colazioni sempre più assonate, per aggiornarmi sui risultati.

Si può vivere il calcio non dico senza giocarlo, ma pure senza nemmeno guardarlo? Me lo sto chiedendo ora, mentre ottobre mi bagna le scarpe, mentre sto imparando a conoscere una città in equilibrio sugli estremi come Napoli, e mi tornano in mente tutte le scritte sui muri o sulle saracinesche abbassate dove il calcio non è uno sport e nemmeno una fede, quanto, semmai, una "consuetudine", un elemento della natura come lo sono i pomodorini o la striscia di smog che si vede sotto al Vesuvio. Mi tornano in mente le scritte degli ultras, quelle sentenze colorate di blu e impresse sui muri da mani molto ferme e molto limpide, a insegnare il verbo del calcio in una città che ha visto Dio Diego nascere e poi morire, che ha visto tutto e mangiato anche il niente, che tratta questo sport come fosse una tazza di caffè (da bere rigorosamente senza zucchero), o i taralli sul lungo mare o ancora, la cortesia quasi impicciona tra sconosciuti alle fermate sempre affollate dell'autobus. Mai come un figlio, però, perché sia chiaro, esiste il calcio, e poi, e prima e durante, soprattutto durante, esiste IL Napoli. Quelle scritte quasi rassicuranti, da far impallidire per la loro caparbietà e ubiquità il più ribollente tifo ordinato di uno stadio inglese, "Ci siamo ma non ci tesseriamo", "la Fede prima di tutto", per arrivare alla definitiva "Alla base c'è il calcio" che si vede solo sulla fiancata di un'edicola chiusa, mi pare di ricordare, dove ho lasciato il cuore, poco prima di entrare in Piazza Dante.

Non ho visto ancora una partita, ma ho sicuramente respirato più calcio rispetto a qualsiasi gara rinviata per ordine pubblico durante la sera di Bulgaria-Italia, mentre ricoperto di sudore e con gli occhi stanchi per averli tenuti sbarrati tutto il giorno, aspettavo un panino che avrebbe alterato per sempre l'equilibrio del mio fegato, e rubavo minuti della partita dalla televisione del chioschetto di girarrosto, quando poi un passante è entrato assieme alla moglie incinta, cui era improvvisamente sopraggiunta voglia di girarrosto, e non appena si è accorto della Nazionale in tv la prima cosa che ha chiesto non è stata il risultato ma se Insigne (di Frattamaggiore) era sceso in campo.

È calcio anche girare per le strade durante una partita del Napoli, è scoprire il risultato calcolando il numero di volte in cui hai sentito suonare i clacson, è uno scudetto sbiadito, uno dei tanti, dipinto su un muro di un vicolo, uno dei tanti, accanto ai panni stesi e a tavoli dal compensato ormai divelto. E' calcio non tanto le statuette subito aggiornate di Ibrahimovic al PSG nei presepi di via San Gregorio (quello semmai potrebbe essere classificato come folklore) quanto il fiume azzurro di persone che invade la metro al termine della partita a Fuorigrotta, sono calcio i commenti di una signora in abito elegante di fronte a un hotel di lusso sui risultati del Milan la sera prima, perché appunto, il calcio si mastica, si impasta, esce dai rubinetti nelle case, lo si indossa come un vezzo o una necessità o un modo di vivere. E' calcio, soprattutto, il vecchietto che porta a spasso una bicicletta (o viceversa?) alle tre di una silente domenica pomeriggio, con il sole che picchia come ad agosto anche se è già settembre, mette giù il cavalletto, fermandosi in una piazzetta della provincia campana di fronte ai bar ancora o appena chiusi, appoggiando la radiolina modello transistor sintonizzata su Tutto il Calcio minuto per minuto all'interno del cestello di vimini, pieno di stracci, come se dovesse rimboccare le coperte a un bambino. E' calcio il suono discreto della voce dei radiocronisti, che attira i passanti, comprese madri di famiglia che chiedono "quanto stanno?" con la stessa anonima naturalezza con cui si chiede a tuo padre a tavola di passarti il sale. O ancora, il ristoratore a Sorrento che precisa al turista un po' troppo facilone che non esiste solo il Napoli, ma pure il Sorrento, appunto, è calcio il brulicare di differenze e di interessi di cortile anche in pochi chilometri quadrati.

E mentre ottobre mi buca le ruote della bici, e mentre il calcio sparisce dai nostri stadi e dalle tv in chiaro, io vedo calcio ovunque, in questo paese, e nella mia vita, anche. L'irrefrenabile impulso a sbirciare i titoli della Gazzetta in mano a un signore seduto su una panchina al parco, l'irrestibile richiamo di una vetrina di maglie ufficiali da gioco, che fanno sembrare le divise sociali modelli di Armani o Gucci, con la voglia di scoprire quel ricamo, quelle righe più strette o più larghe, che la nuova stagione autunno-inverno propone. E ancora, è calcio la volante della Municipale che chiude via Ortigara, alla domenica pomeriggio mentre sfreccio in bici poco distante, e butto la coda dell'occhio sulla rinascita di un mito cittadino defunto, la Spal ora caduta tra i dilettanti, eppure le porte dello stadio si aprono ancora, e le vie al traffico vengono chiuse, anche se riguardano un'area dolorosamente più ristretta rispetto a nemmeno pochi anni fa. Sento tutto il peso del calcio mentre tento di tenere in piedi la mia vita nella sala d'aspetto ormai abbandonata di una stazione della mia provincia, polverosa, con porte e infissi divelti, dove entra sempre il vento e dove Napoli arriva pure lì, sulle scritte dei muri che ormai nessuno si prende la cura di riverniciare. Sento il peso del calcio, mentre abbraccio la mia vita e vedo sulla panca di legno graffiato di fronte a me una fila interminabile di piccole figurine, scorgo il volto di Aldair, è calcio rompere la nuvola di tristezza pronunciando improvvisamente il nome di Aldair, e poi risalire, dai tagli delle maglie, a che stagione fosse, e provare a indovinare i volti dei calciatori ormai erosi dal tempo, che fanno sembrare il Bierhoff del 2000 un Piola in bianco e nero. Ottobre ci piove addosso, e sento il calcio che divide famiglie e amici ma avvicina pianeti e sistemi solari diversi sul divano di un sabato sera, come se fosse la cosa più ovvia del mondo, avvicinarsi, dico, ma pure guardare una partita insieme. Non ho ancora visto una partita di calcio, ma mi sembra comunque di viverlo abbastanza spesso, come quando ho provato a spiegare dove ho imparato la pazienza tifando per una squadra di calcio, appunto, o dove ho cercato di farti capire chi sono citando Alvaro Recoba e il suo esordio contro il Brescia, e le sue figuracce in Champions League, dove ho usato il calcio per raccontarti di quando ero piccolo, per far sembrare il passato quello che in fondo è, qualcosa di distante e che non torna, anche se continuo a guardare il Televideo, ma su un'applicazione per il mio iPhone. E' già ottobre e mi sento quasi nudo e sperduto, senza 90 minuti negli occhi, ma ho dovuto fare spazio per guardarti mentre leggevi spontaneamente la Gazzetta e mi sono ricordato, dopo averlo perso, che cosa fosse davvero il calcio e anche respirare, sì.

Trenta in un attimo

Adesso prova a sistemare le cose. Adesso che diventi grande e hai capito come funziona il gioco è il momento di cercare di prendere il timone per guidare un po' tu. Basta perdere tempo su internet a leggere cosa dicono gli altri. Pensa di più, prendi posizione, decidi cosa ti piace, qual è il tuo verso, quale il tuo stile. Chi sei, cosa vuoi, dove vai? Butta le vecchie scarpe, le pile di gazzette, liberati delle vhs scolorite e degli appunti di analisi. Respira, piangi, corri molto, incazzati più di quanto hai fatto finora e se vuoi fare la rivoluzione non rimandare a domani. Tira le somme, decidi quali saranno le conseguenze, agisci in fretta prima che il mal di schiena o il sonno sul regionale ti colgano impreparato. O rimani più semplicemente la bella persona che sei che a noi andrà bene ugualmente. Continueremo ad ascoltare volentieri le storie che avrai da raccontare, quando sarai felice o quando sbatterai il pugno sul tavolo. Trenta sono arrivati in un Attimo, sarà facile farli diventare insieme Sessanta, Novanta e poi basta che diventa tutto più complicato. All the very best.

La città ancora viva

Nel dibattito su Ferrara, i suoi pregi e le sue virtù, capita ogni tanto qualcuno a dare una piccola scossa, schiaffone o carezza che sia, a smuovere un poco le coscienze collettive solite a discutere per lo più nei bar o nelle pieghe di un articolo di estense.com, secondo partigianerie e schemi ormai ben definiti.
E' successo due volte nell'ultimo anno: prima un graffito nella piazza cittadina con una frase provocatoria dell'artista Andrea Amaducci ha ricordato a tutti che "Ferrara 500 anni fa era New York", scatenando riflessioni inaspettate nel bene e nel male e pochi giorni fa il post di Lorenzo Mazzoni sui blog del Fatto Quotidiano dal titolo "La città morta". Un'analisi spietata e per alcuni versi vera dei vizi che si nascondono in questa città di provincia. Cose arcinote a chi vive qui e forse poco interessanti a chi da queste parti non passa mai, il tutto condito con un pizzico di retorica e acidità che hanno fatto storcere il naso ai molti che in questa città investono tempo e denaro, e annuire rammaricati i delusi, gli scontenti e i critici di ogni tempo ed età.
Confesso che mi ha divertito leggere commenti e pareri di amici e conoscenti: avrei potuto indovinare la loro posizione in merito anche prima che la esprimessero. Chi si è sentito punto sul vivo dagli argomenti criticati nel pezzo ha reagito con livore e disprezzo, chi da questa città se ne vuole andare da un bel po' perché non ci vede un futuro ha eletto i pensieri di Mazzoni a vessillo personale condividendoli sui soliti social network.

Eppure questa città non è ancora morta come si vuol far credere. Pur sopravvissuti di un soffio al taglio delle province montiano ed essendo sempre di più un dormitorio per la vicina Bologna non possiamo dire che da queste parti lo spirito di iniziativa non manchi. I punti che Mazzoni critica non dipendono in larga misura dall'amministrazione comunale o dalle mancate virtù dei ferraresi: il terremoto è un evento naturale che ha colpito trasversalmente e dal quale ancora fatichiamo a capire come ripartire, la naturale propensione alla fuga dei commercianti spaventati è un sintomo che si è sempre verificato nei luoghi colpiti da calamità a causa degli oneri insostenibili per chi ha famiglie da mantenere e vede le vendite già scarse di una piccola bottega del centro crollare rapidamente a picco.

Che a Ferrara non ci sia lavoro non è una novità e le ragioni sono dovute a talmente tante cause e concause storiche che non è una tendenza alla quale potremo venire meno nemmeno in un paio di generazioni sudando sette camicie. Chi investe su nuove attività commerciali o scommette su qualche iniziativa che debba avere un minimo di visibilità preferisce il palcoscenico di una grande città e difficilmente si interesserà ad una zona decentrata come la nostra. Un ragazzo che cresce a Ferrara sa bene che al 90% quando avrà terminato l'università (se non prima) dovrà rivolgere lo sguardo altrove per cercare lavoro nei tanti settori in cui questa città è carente. Sa altrettanto bene che oltre all'agricoltura questa città si regge sul suo straordinario patrimonio culturale e su tutto l'indotto che gira intorno a mostre, musei, festival culturali che negli ultimi anni hanno portato in città milioni di persone entusiaste di vivere la nostra città anche solo per pochi giorni. E' un male questo? Non mi pare. E' un male che il Comune o l'Arci siano in grado malgrado risorse limitate di organizzare eventi che richiamano in città persone da ogni dove da aprile ad ottobre? Direi di no. E' qualcosa che non ci è chiaro e ci sorprende essendo cresciuti a Ferrara? Nemmeno. C'è chi nasce in altrettante centinaia di città di provincia italiane (o paesi sperduti nel nulla) e sa che le sue prospettive sono molto più limitate di chi vive nelle grandi metropoli ma magari si barcamena per restare ed avere una vita meno caotica e stressante del travet milanese tutto traffico e ufficio.

Dice: c'è la nebbia d'inverno, lo smog a livelli micidiali, gli scarichi del petrolchimico e mi viene la depressione. Fuggire da queste cose è ormai impossibile ovunque si viva: restano le montagne, la via dei monti e dei campi, il vivere sereno dell'agricoltore o del guardiaboschi. Siamo sicuri che le nuove generazioni sceglierebbero quella strada per vivere sani, rinunciando agli aperitivi, all'intrattenimento, al mondo sempre connesso di oggi che vede nelle città i principali punti di aggregazione? Sicuri che per respirare aria pura ed essere felici davvero serva isolarsi fino a questo punto? Ferrara sarà forse inquinata e tumorale quanto Milano, ma aprendo le finestre si riesce ancora a vedere il cielo invece di un grigio palazzone con i clacson impazziti in sottofondo. Piccoli particolari che possono fare la differenza qui come in altre città. Non siamo meglio o peggio di molti altri comuni, siamo quello che abbiamo ottenuto da cinquant'anni di vita sfrenata e produttiva, dal progresso, dall'industrializzazione di un'Italia intera.

Poi ci sono i problemi locali dovuti al malcostume, la politica clientelare, le scelte inoculate, le cattive gestioni di qualcuno che finiscono per distruggere l'interesse comune. E' fallita la Spal perché chi l'ha comprata e amministrata non era interessato davvero alle sue sorti: un susseguirsi di imprenditori furbetti e poco lungimiranti. Abbiamo trasferito un ospedale in campagna per gli affari privati di qualcuno, ormai tanti anni fa, ed ora ce lo teniamo anche se rappresenta un brillante esempio di cattiva gestione e sarà una delle eredità più fastidiose di sempre che ci porteremo dietro per anni. Avessero davvero chiesto un'opinione ai cittadini sul trasferimento di un ospedale fuori città sarebbe stato un plebiscito di no, ma tra quando si è fatto l'affare e quando questo si è concluso operativamente sono passati 21 anni e con essi è mutata anche l'idea di politica partecipata e la sensibilità verso certe procedure di democrazia dal basso.
Una mattina di settembre di sette anni fa è stato "morto un ragazzo" da quattro poliziotti iracondi per un temperamento che appartiene a loro e non ai ferraresi tutti che ancora indignati lo piangono e lo ricordano. Ferite aperte e non dimenticate che hanno portato Ferrara sulla scena per vicende tristi, capitate non perché questa è una città marcia e morta ma perché purtroppo casi come questo sono successe e succedono nemmeno troppo raramente anche in molte altre città. Essere persone migliori spetta a noi, far si che il malcostume non arrivi in una piccola comunità spetta al carattere e all'educazione di chi ci vive. Possiamo fare la nostra parte ma non possiamo in alcun modo prevedere come si comporterà il nostro vicino, che magari finirà con lo screditare una città intera.

Le mele marce nella società sono un male trasversale di cui questa città non vuole e non deve ritenersi responsabile. Assistiamo al crescere di delinquenza e degrado o alle fine delle risorse economiche ogni giorno da ogni parte di questo paese acciaccato. Ne facciamo parte nel bene e nel male e abbiamo i nostri momenti tristi come tutti. Se sapremo essere più virtuosi di chi ci ha preceduto come cittadini sta a noi e alle nuove generazioni. I gruppi di persone sono fatti dalle singole eccellenze che ognuno di noi può portare per il bene comune: se gli amministratori di domani prenderanno decisioni pubbliche migliori, se avranno comportamenti esemplari come cittadini, più attenti a rispettare il prossimo perché possa godere anch'esso dei beni pubblici, avremo già fatto un grosso passo avanti. E se guardo all'educazione dei bimbi di oggi e alle lezioni di civiltà che ci offrono ogni giorno, non riesco ad essere così pessimista. Rivolgiamo a loro le nostre attenzioni per cambiare questa città. E vedrete che Ferrara è ancora viva, e faremo in modo di mantenerla tale per quanto ci è possibile. Ci proviamo tutti insieme ogni giorno ed è grazie anche alle riflessioni di qualche cittadino che storce il naso come Mazzoni o Amaducci se ogni tanto una voce arriva ai piani alti e qualcuno prova davvero a cambiare le cose.

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Una lieta sorpresa dal paese delle zanzare e della nebbia fitta. Con Ciccsoft L'Italia riacquista un posto di primo piano nell'Europa dei Grandi.
(Frankfurter Zeitung)

Il nuovo che avanza nel mondo dei blog, nonostante noi non ci abbiamo mai capito nulla.
(La Repubblica)

Quando li abbiamo visti davanti al nostro portone in Via Solferino, capimmo subito che sarebbero andati lontano. Poi infatti sono entrati.
(Il Corriere della Sera)

L'abbiam capito subito che di sport non capiscono una borsa, anzi un borsone. Meno male che non gli abbiamo aperto la porta!
(La Gazzetta dello Sport)

Vogliono fare giornalismo ma non sono minimamente all'altezza. Piuttosto che vadano a lavorare, ragazzetti pidocchiosi!
(Il Giornale)

Ci hanno riempito di tagliandi per vincere il concorso come Gruppo dell'anno. Ma chi si credono di essere?
(La Nuova Ferrara)

Giovani, belli e poveri. Cosa volere di più? Nell'Italia di Berlusconi un sito dinamico e irriverente si fa strada come può.
(Il Resto del Carlino)

Cagnazz è il Mickey Mouse dell'era moderna e le tavole dei Neuroni, arte pura.
Topolino)

Un sito dai mille risvolti, una miniera di informazioni, talvolta false, ma sicuramente ben raccontate.
(PC professionale)

Un altro blog è possibile.
(Diario)

Lunghissimo e talvolta confuso nella trama, offre numerosi spunti di interpretazione. Ottime scenografie grazie anche ai quadri del Dovigo.
(Ciak)

Scandalo! Nemmeno Selvaggia Lucarelli ha osato tanto!
(Novella duemila)

Indovinello
Sarebbe pur'esso un bel sito
da tanti ragazzi scavato
parecchio ci avevan trovato
dei resti di un tempo passato.
(La Settimana Enigmistica)

Troppo lento all'accensione. Però poi merita. Maial se merita!
(Elaborare)

I fighetti del pc della nostra generazione. Ma si bruceranno presto come tutti gli altri. Oh yes!
(Rolling Stone)

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