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CHI ATTACCA IL DIRITTO DI OPPOSIZIONE ATTACCA LA DEMOCRAZIA
di Giuseppe Scano

Così come ha già fatto in occasione del raduno al Palavobis, Berlusconi attua la sua propaganda antidemocratica verso l’opposizione. Pare approfittare anche del tragico contesto del recente assassinio di Marco Biagi. Nei suoi commenti a caldo (si vedano le agenzie o televideorai) afferma che “l’odio”, “la menzogna”, un “linguaggio degno di una guerra civile” armano e nutrono le mani degli assassini. Così, con questa “ragionevolezza” S.B. invita alla ragionevolezza e alla concordia.

S.B. attribuisce all’opposizione il nutrimento del terrorismo e questa è un’irresponsabile demonizzazione dell’avversario. Ancora più pericolosa e criminale è la tendenza a confondere l’opposizione politica (i partiti) e civile (i girotondi, i social forum) con il terrorismo. Infida, affrettata e calunniosa è la manovra di dare già un colore e una collateralità a questo recente atto terroristico assimilandolo all’opposizione di sinistra.

Arte della comunicazione, accusare e invitare alla concordia nello stesso tempo, dire e poi smentire, sollevare propaganda come fosse verità: prodromi di “fascismo” dell’informazione. In questo S.B. è sempre stato un maestro.

Anche i miei alunni di 14 anni quando picchiano o infastidiscono un compagno affermano convinti: “Ma è lui!!”. Loro ingenui, Berlusconi no!

L’omicidio Biagi è certo diretto contro il delicato contesto della tensione fra governo e opposizione attorno all’art.18, ma se si deve individuare l’area di responsabilità coll’antico principio di analisi del cui prodest, “a chi giova”, dove si deve cercare? A chi giova questo omicidio?

Dire che le parole sono pietre trasformate in pallottole dai terroristi (Cicchitto, Cossiga) è un’affermazione grave che vuole imbavagliare l’opposizione, sia politica che civile, facendola apparire come collaterale al terrorismo mentre ne è l’antidoto.

Attenzione ai commenti di questi fatti gravissimi. In esse ci può essere lo sciacallaggio di forze che vogliono approfittare della situazione e forse con la stessa logica degli sciacalli si sono mossi i tentacoli della frangia assassina.

L’assassinio non può essere assimilato all’azione politica, men che meno a quella aperta, democratica e pacifica delle piazze. Ne è la negazione.


uno di sinistra, democratico, tessera dei Verdi, attivista del social forum.

 


LIBERTA’ DI LICENZIAMENTO TRA ARROGANZA DEL POTERE E DISSENSO DI POPOLO

Nel maggio del 2000 la volontà popolare si espresse nettamente contro l’abbattimento dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori respingendo il relativo referendum. Allora l’on. Berlusconi, per evitare problemi sul cammino verso Palazzo Chigi, si armò di strumentale prudenza ma non mancò di dare assicurazione alla Confindustria che da Presidente del Consiglio avrebbe bruciato quella norma dentro l’attuazione di un piano di interventi rivolti a liberare il lavoro da vincoli e tutele. E così oggi il Cavaliere, ritenendo di poter padroneggiare a piacimento gli orientamenti della gente, mette mano al suo progetto partendo dal disegno di legge collegato alla Finanziaria 2002 contenente la “Delega al Governo in materia di mercato del lavoro”.

Il delirio di potenza può fare però brutti scherzi ed ha portato il premier a sottovalutare la capacità di reazione di milioni di lavoratori che sta trovando espressione democratica nella dura opposizione delle forze politiche e sociali più avanzate, nella mobilitazione dei nuovi movimenti e soprattutto, come momenti di lotta significativi ed unificanti, nella manifestazione nazionale di protesta del 23 marzo e nello sciopero generale indetto dalla CGIL per il 5 aprile. Una protesta che vuole contrapporre alle orchestrazioni propagandistiche del Governo l’eloquenza dei fatti e la forza persuasiva degli argomenti. E lo vuole fare partendo dall’analisi dell’art. 10 della Delega il quale, sotto il titolo mistificante di “misure temporanee e sperimentali a sostegno dell’occupazione regolare nonché incentivi per le assunzioni a tempo indeterminato” mette in cantiere una riforma che prevede la sospensione dell’art. 18 per quattro anni, “fatta salva – dice il testo – la possibilità di proroghe in relazione agli effetti registrati”, nei casi di emersione dal lavoro nero, di aziende che assumendo superino la soglia dei 15 dipendenti e di passaggio dal contratto a termine a quello a tempo indeterminato. Una sospensione dunque di lunga durata che, in forza delle progettate proroghe, sarebbe destinata a protrarsi indefinitivamente provocando un totale svuotamento dell’art. 18 anche a prescindere dalla sua formale abrogazione. 

A dispetto di tutte le cortine fumogene, non può invero sfuggire la forza espansiva della riforma che, mentre conserva ad esaurimento la tutela della reintegra per i lavoratori in servizio, elimina tale garanzia per le nuove assunzioni: quelle di emersione dal lavoro nero che lasceranno comunque i lavoratori in una situazione di precarietà, quelle comportanti il superamento della soglia di 15 dipendenti senza effetti sulla stabilità dell’occupazione e, a ben guardare, tutte le altre che nasceranno di certo a tempo determinato, come effetto della sostanziale liberalizzazione del relativo contratto introdotta dal D.L. n° 368 del 06.09.01, per essere poi trasformate in rapporti privi di scadenza ma nel contempo sottratti alla disciplina dell’art. 18. E sì, perché, a riforma attuata, non vi sarà un solo datore di lavoro tanto ingenuo da assumere lavoratori a tempo indefinito senza farli prima passare attraverso una fase di contratto a termine. Infatti è proprio questo caso, quello appunto del vantaggio-truffa costituito dal passaggio dal contratto a termine a quello a tempo indeterminato, che consuma in danno dei lavoratori l’inganno maggiore perché apre una vera e propria autostrada alla libertà di licenziamento con lo specchietto per le allodole di un contratto nominalmente stabile che nasconde in realtà un rapporto più precario di quello precedente. 

Diamo allora uno sguardo agli argomenti utilizzati dal Governo e dalla Confindustria a sostegno della riforma per disvelarne l’infondatezza. Dicono Berlusconi e D’Amato di non comprendere tanta determinazione nella difesa dell’articolo 18 assumendo che esso trova applicazione solo in un numero limitato di casi ma trascurano di considerare la funzione di deterrenza dell’istituto della reintegra e, contraddicendosi, ne confermano il valore civile e l’importanza pratica quando portano avanti con pervicacia la riforma anche a costo di laceranti conflitti sociali. Affermano poi che la flessibilità in uscita favorirebbe l’assunzione dei giovani disoccupati fingendo di ignorare che i più accreditati economisti escludono un rapporto di causa-effetto tra tale flessibilità e l’incremento della occupazione, come peraltro emerge dal fatto che con l’attuale normativa il fenomeno della disoccupazione è praticamente assente in vaste zone del Paese. 

Ed ancora, sostengono che, in caso di licenziamento illegittimo, verrebbe previsto un adeguato risarcimento ma non dicono che si tratterebbe pur sempre di un enorme arretramento perché la disciplina in vigore già prevede, oltre alla riammissione in servizio, la corresponsione di tutte le retribuzioni dal momento dell’illegittimo licenziamento fino a quello della effettiva reintegra e, soprattutto, non considerano che il rapporto di lavoro, avendo ad oggetto una prestazione non assimilabile alle merci, si pone su un piano diverso da quello degli rapporti contrattuali per i quali, in caso di ingiustificata risoluzione, è prevista solo la sanzione del risarcimento del danno. Asseriscono inoltre che l’art. 18 sarebbe un vincolo incompatibile con le esigenze di ristrutturazione delle imprese ma omettono di precisare che l’attuale normativa prevede la legittimità del licenziamento non solo in presenza di una giusta causa e di un notevole inadempimento del lavoratore ma anche nel caso del cosiddetto “giustificato motivo oggettivo”, quello cioè determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al suo regolare funzionamento. Assumono infine che nelle altre legislazioni europee non sarebbe rinvenibile una norma analoga a quella dell’art. 18 senza dire che la Carta europea dei diritti fondamentali stabilisce all’art. 30 che ogni lavoratore ha diritto alla tutela (ovviamente piena ed effettiva) contro ogni licenziamento ingiustificato e che il nostro Paese ha in materia di lavoro dipendente una storia dolorosamente segnata da sfruttamenti e discriminazioni.

Ma c’è di più e cioè che la progettata riforma dell’articolo 18 si collega funzionalmente ad un’altra, quella della delega in materia di arbitrato nelle controversie individuali di lavoro, che punta ad una forte riduzione del controllo di legalità da parte del giudice. Il fatto è che la delega per la riforma dell’art. 18 si inquadra nel piano disegnato dal Libro bianco pubblicato dal Ministero del Welfare dello scorso ottobre: un piano che va ben oltre la riforma della disciplina del licenziamento e dell’arbitrato perché si propone, attraverso una gradualità di interventi, di operare un vero e proprio stravolgimento dell’intero impianto dell’ordinamento del lavoro con l’eliminazione del sistema di garanzie previste a tutela dei lavoratori e col ritorno ad una concezione servile del lavoro. Un progetto in aperto contrasto con la Costituzione che fonda la Repubblica sul lavoro ed impegna le istituzioni a rendere effettivo il diritto al lavoro ed a tutelare l’attività lavorativa in tutte le sue forme ed applicazioni in attuazione della grande scelta democratica volta a rimuovere gli ostacoli che impediscono di fatto l’eguaglianza dei cittadini e l’effettiva partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. L’art. 18 è uno scudo contro le più gravi ingiustizie in danno dei lavoratori e perciò va esteso anche alle aziende con meno di 15 dipendenti. Esso fa onore alla legislazione sociale del nostro Paese ed ha una grande importanza simbolica: la sua intransigente difesa assume pertanto un valore strategico di enorme portata.

Brindisi, 7 marzo 2002 

Michele DI SCHIENA


Chi era la vittima, docente di economia e di diritto, consulente 
del ministro Maroni. 51 anni, lascia la moglie e due figli

Biagi, un giurista europeo e liberale
È stato tra i promotori della riforma dell'articolo 18
e uno degli autori del Libro Bianco sul mercato del lavoro 

di CARLO GULOTTA e LUCIANO NIGRO 


BOLOGNA - La borsa da professore, la bicicletta, il suo spirito bonario e abitudinario. C'era tutta la sua vita di Marco Biagi, il suo carattere nell'ultimo momento della vita di Marco Biagi, assassinato mentre tornava a casa, dalla moglie Marina Orlandi e dai figli in via Valdonica, nel suo ghetto ebraico, a due passi da piazza Maggiore che voleva far rivivere perché "sporco e senza controllo". La borsa del giurista, l'esperto di diritto del lavoro della grande scuola bolognese di Federico Mancini che lo aveva portato a lavorare con Bassolino e Treu, prima, e ora con Maroni. La bicicletta dell'instancabile pedalatore sui colli bolognesi con l'amico Romano Prodi, o verso il mare dove andava con la due ruote da corsa a trovare gli amici socialisti. I movimenti regolari del professore che arriva a casa quasi sempre alla stessa ora, dalla moglie Marina Orlandi e dai due figli, di ritorno dall'università di Modena, dove insegnava.

Chi ha sparato lo immaginava un falco, un nemico da distruggere nel cuore di un conflitto sociale che spacca in due l'Italia perché collaborava con Maroni. Ma Biagi era tutto meno che un falco. "Basta trovare una via di mezzo - diceva nella sua ultima intervista televisiva - una strada diversa da quella del governo, che anche la Cgil potrebbe accogliere. Magari escogitare una sospensione per i neo assunti al sud". 

Poi lo spazio per le mediazioni si è chiuso. E Biagi ha aderito all'appello in favore delle correzioni all'articolo 18 di Renato Brunetta, l'economista di Forza Italia, mentre molti dei suoi amici bolognesi si schieravano dall'altra parte, con il sindacato. Ne aveva discusso appassionatamente e animatamente la settimana scorsa con i colleghi Giorgo Ghezzi, Luigi Mariucci, Franco Carinci e con l'ex sindaco Walter Vitali, in uno dei tanti viaggi da pendolare tra Roma e una Bologna dove tutti si conoscono. Ieri, quando l'hanno ammazzato c'era un'assemblea di giuristi del lavoro in appoggio alla manifestazione della Cgil di sabato prossimo. "E' accaduto un fatto terrificante", ha balbettato uno di loro. E hanno sospeso l'incontro.

Cinquantun anni, nato nel 1950, Marco Biagi insegnava alla facoltà di Economia di Modena, ma era l'ultimo rampollo di una grande scuola di giuristi del lavoro. "Era la mascotte del gruppo" ricorda il professor Umberto Romagnoli, scossa dalla notizia. Era ancora studente quando il suo maestro, Federico Mancini con l'agguerrita e nutrita pattuglia dei suoi allievi Romagnoli, Ghezzi, Pedrazzoli e Montuschi scriveva lo statuto dei lavoratori. Lavoravano gomito a gomito con Gino Giugni, socialista come Mancini. E come Biagi.

Era rimasto socialista anche negli anni della caduta di Craxi. Grande amico di Enrico Boselli, lo aveva seguito anche quando dirsi socialisti era un'onta. Negli anni novanta nel mondo laico-socialista ogni volta che si parlava di un rimpasto di giunta o di un assessorato, saltava fuori il suo nome. Era un professore, infatti, e un professore stimato. Alla fine il sindaco Ds Walter Vitali lo scelse per il consiglio di amministrazione dell'azienda trasporti. La lasciò nel '99 quando Giorgio Guazzaloca espugnò la roccaforte rossa. Quell'anno Biagi si era candidato nella lista dello Sdi che stava dalla parte sbagliata.

Ma la politica veniva dopo. Al primo posto c'era l'attività di studioso del mondo del lavoro. Collaborava con il Comune di Milano e con l'Unione Europea. Con i sindacati e con la Confindustria. Consulente degli ultimi governi del centrosinistra, da Bassolino a Treu all'amico bolognese Angelo Piazza, aveva scritto un libro sulle politiche del lavoro con Tiziano Treu. Faceva parte del Cnel, il consiglio nazionale dell'economia e lavoro, e dell'Arel l'istituto di ricerche economiche di Nino Andreatta.

La svolta, che lo porterà ad essere indicato come uno degli ispiratori della riforma dell'articolo 18, arriva nell'autunno. Da consulente del ministro Roberto Maroni partecipa alla elaborazione del "libro bianco sul mercato del lavoro", un testo che secondo il professore bolognese "può davvero costituire un punto di svolta per il diritto del lavoro prossimo venturo". Una svolta liberale. E' da quel momento Biagi segue passo passo l'inasprirsi dello scontro. Sul Sole 24 racconta la cronaca di uno scontro sociale che, nonostante i tentativi di mediazione, si inasprisce. E che qualcuno, colpendo lui, vuole ora rendere esplosivo.



Dima: «La decisione l'ho presa con le mie amiche della squadra di basket»
Un sogno a 13 anni: farmi esplodere
di Quinto Cappelli

«Papà, vado a farmi scoppiare». La terribile decisione è comunicata a suo
padre da Dima, una ragazzina di soli 13 anni, che da giorni vive nel terrore
l'assedio di Betlemme, dove ormai non si contano più i morti, fra cui
diversi bambini.
La drammatica storia di Dima è raccontata per telefono da quattro ragazzi
dell'operazione «Go-el» dell'Associazione Giovanni XXIII di Rimini, in
missione di pace e in difesa dei diritti umani, fra israeliani e
palestinesi: Francesca Ciarallo di Termoli, Giovanni Grandi di Rimini, Luca
Pieri di Bologna e Fabio Cea di Bari.
Il padre di Dima, un professore universitario, e la madre della ragazzina
sono allibiti per la richiesta della figlia tredicenne: le danno della
pazza, intimandole di non parlarne più. Ma alle insistenze farneticanti
della ragazzina, i genitori le chiedono spiegazioni. «La decisione -
risponde fredda l'aspirante kamikaze a mamma e papà - è stata presa insieme
alle mie amiche. Eravamo uscite per andare a giocare a basket. Ma, invece di
giocare, ci siamo messe a parlare, concludendo che l'unica cosa da fare
contro tanta violenza e morte è farsi scoppiare».
Di fronte ad un così freddo ragionamento della ragazzina, ammirata e
approvata dai suoi fratelli e sorelle, anche più piccoli, i genitori sono
ancora più esterefatti. La mamma grida che d'ora in poi la figlia non uscirà
più con le amiche. Il padre cerca di ragionare e chiede ulteriori
spiegazioni. «Papà, i carri armati - risponde Dima - hanno occupato
Betlemme. Le bombe piovono dal cielo come fuochi d'artificio e stelle
cadenti nella notte. Ma queste "stelle" non annunciano nessuna Natività.
Anzi, portano solo spargimento di sangue, morte e distruzione. I bulldozer e
le ruspe hanno distrutto la nostra casa ed ora siamo costretti a vivere nei
campi profughi con tante altre persone. I nostri compagni maschi hanno
deciso di scendere in strada con le fionde contro i carri armati. Ma noi
ragazzine della squadra di basket abbiamo preso una decisione più
importante: diventare tutte kamikaze».
E alla mamma che scoppia in lacrime, Dima chiede angosciata: «Mamma, perché
tu devi essere perquisita dai soldati ogni volta che esci e costretta a
toglierti la giacca e la maglia per i controlli ed essere così umiliata,
davanti ai tuoi figli? Perché noi ragazzi, quando riusciamo ad andare a
scuola, dobbiamo essere sottoposti ai controlli dei soldati israeliani, che
frugano perfino nelle nostre cartelle? Perché loro possono bombardare,
lanciare missili e noi non possiamo fare niente?
Il padre, professore universitario, non trova risposte. Abbraccia la figlia
e piange, mentre fuori continua l'inferno, sotto i continui bombardamenti
degli F 16, i rastrellamenti casa per casa e lo sferragliare dei temibili
carri armati Markava.
Commentano le quattro «colombe» di don Oreste Benzi: «Perché ragazzine di 13
anni aspirano a diventare kamikaze? Perché, invece di giocare e studiare,
queste ragazzine avvertono così forte la vocazione al martirio? Forse, a
nome di tanti bambini innocenti palestinesi, stanno lanciando al mondo un
appello per dire: Non lasciateci soli».


L'IMPERO DEL MALE
di Giulia Piccolino

Basta parlare male del povero Berluska... parliamo male di qualcun altro,
uno a caso...Il Meraviglioso Esimio Splendido Presidente Degli Stati Uniti D'America
George W Bush Jr!!

Bush rappresenta probabilmente il punto più basso mai raggiunto dalla
presidenza americana. Guerrafondaio come Nixon ma senza averne l'astuzia
politica, becero come Reagan (di cui imita anche il linguaggio: vedi
discorsi di Reagan sull'Impero del male Unione Sovietica) ma senza averne
il carisma, aggiunge a queste caratteristiche un livello di ignoranza che
arriva veramente all'incredibile. Citiamo due recenti esempi delle sue
clamorose gaffes, relativi alla visita di Bush in Giappone:
- Bush parla di "svalutazione dello yen" invece che di "deflazione dello
yen". La moneta giapponese ha un crollo finanziario improvviso.
- Bush annuncia che ha deciso di iniziare il viaggio dal Giappone perché
"tra gli USA e il Giappone c'è una solida amicizia ormai da 150 anni".
Momenti salienti dell'inciucio: Pearl Harbor, Hiroshima e Nagasaki!

E' anche noto che Bush è un ex (siamo sicuri, ex?) alcolizzato, e
probabilmente non poche cellule del suo cervello, posto che ne abbia mai
posseduto uno, sono andate a farsi friggere. Ciò nonostante Bush ostenta
moralismo proibizionista vecchia America. 

E' chiaro che Bush è un fantoccio e che le leve del comando sono in mano ad
altre persone. Ma quali persone? E' ipotizzabile che nell'amministrazione
Bush esistano due cricche: una, che viene messa sempre in minoranza,
capeggiata dal segretario di Stato Colin Powell, formata da persone che
hanno ancora un cervello in grado di funzionare un pochetto. Dell'altra
ipotizzo la composizione dandovi una descrizione dei singoli personaggi:


Dick Cheney, vicepresidente: di Dick sappiamo ben poco perché è
continuamente malato e ormai ai limiti del coma. Sua moglie invece pare che
sia attivissima. All'indomani dell'11 settembre Mrs Cheney ha tirato fuori
una specie di lista di proscrizione stile maccartismo, in cui indica i nomi
di una serie di prestigiosi studiosi universitari e uomini politici (tra
cui il leader dell'ala di sinistra del Partito Democratico Jesse Jackson)
rei di un orribile crimine: aver provato a ragionare! Difatti le frasi che
la Cheney considera prove di una scandaloso fiancheggiamento del terrorismo
da parte dei suddetti cittadini americani sono roba tipo: "Dobbiamo tentare
di capire le ragioni che spingono al terrorismo e all'odio per l'America,
dobbiamo conoscere le responsabilità del nostro paese etc etc". Aspettiamo
il varo di una commissione Cheney sulle attività antiamericane. 

Donald Rumsfeld, Segretario alla Difesa, meglio noto come "il falco":
Donald è finanziato dall'industria di armi, e si vede. Di fatti Donald non
resiste a ipotizzare l'utilizzo di "piccole bombe atomiche" (giocattolini
da bambini!) da gettare in testa a Bin Laden, sebbene sappia che questa
strategia bellica prevede qualche piccolo inconveniente. Inoltre Donald è
letteralmente allergico ai diritti umani e reagisce scandalizzato quando
qualcuno gli propone di applicare la Convenzione di Ginevra ai prigionieri
di guerra afghani. Eppure la sua mentalità e quella dei talebani sembrano
avere tanti punti in comune....

Condoleeza Rice, commissario per la Sicurezza dello Stato: Condoleeza Rice,
prima di vederla all'opera suscitava speranze nei cuori di sinistra: una
donna, e una donna di colore per giunta... Purtroppo le speranze sono state
amaramente deluse. Condoleeza ha dimostrato di essere perfettamente
allineata sullo stile guerrafondaio del resto dell'Amministrazione Bush.
Inoltre, di Sicurezza dello Stato attualmente in USA ce ne è veramente
pochina, considerato il caso antrace e il fatto che nessun vero terrorista
è stato ancora scovato.

John Ashcroft, ministro della Giustizia: Qui si raggiunge veramente il
fondo. Mr Ashcroft, noto fondamentalista protestante che quando deve fare
discorsi al Congresso tira fuori i sermoni e le voci degli angeli,
suscitava talmente tanta costernazione nel popolo americano che pur di non
eleggerlo i cittadini hanno messo la croce sul nome del suo avversario
democratico morto in un incidente qualche settimana prima. Alla fine al
Congresso c'è andata la moglie del candidato democratico. Tuttavia le lobby
delle armi premevano per un recupero del loro beniamino Ashcroft, per cui
alla fine è stato ripescato e nominato ministro della giustizia
spacciandolo per un moderato centrista, nonostante avesse detto "Io non
sono di centro perché al centro della strada ci stanno solo i cani morti".
Dopo aver fatto coprire con abbondanti drappeggi le ignude statue del
ministero di Giustizia a spese dei contribuenti, Ashcroft ha avuto
finalmente occasione di realizzare il suo capolavoro politico: i Tribunali
Speciali per i cittadini stranieri accusati di terrorismo (gli americani
hanno diritto invece a un regolare processo), in confronto ai quali il
Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato durante il fascismo era una
corte garantista.



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