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Alla base c’è il calcio

E' già ottobre e per la prima volta da sempre, credo, non ho ancora visto una sola partita di calcio del campionato. Allora ho messo tutto insieme e ho scritto una cosa per Someone still loves you, Bruno Pizzul.

Ottobre mi piove addosso senza che io abbia ancora visto una partita che sia una del campionato italiano di calcio. Ho sbirciato dal buco della serratura qualche gol (che so, il tiro al volo di Miccoli da 30 metri, o la rovesciata di Osvaldo), ho intravisto dal finestrino la parata con colpo di tacco di Agliardi o tutta la rugosa perplessità di Zeman, ho letto seduto sul water del siparietto di Allegri e Inzaghi o dell'insopportabile postura da studente di master di Stramaccioni, che invitava non so bene chi a sciacquarsi la bocca. Poi, nient'altro. Ottobre mi piove addosso, e per asciugarmi ho soltanto qualche pagina di Televideo (le solite, peraltro, da piccolo ne imparai prima la numerazione che le tabelline a scuola) rubata a colazioni sempre più assonate, per aggiornarmi sui risultati.

Si può vivere il calcio non dico senza giocarlo, ma pure senza nemmeno guardarlo? Me lo sto chiedendo ora, mentre ottobre mi bagna le scarpe, mentre sto imparando a conoscere una città in equilibrio sugli estremi come Napoli, e mi tornano in mente tutte le scritte sui muri o sulle saracinesche abbassate dove il calcio non è uno sport e nemmeno una fede, quanto, semmai, una "consuetudine", un elemento della natura come lo sono i pomodorini o la striscia di smog che si vede sotto al Vesuvio. Mi tornano in mente le scritte degli ultras, quelle sentenze colorate di blu e impresse sui muri da mani molto ferme e molto limpide, a insegnare il verbo del calcio in una città che ha visto Dio Diego nascere e poi morire, che ha visto tutto e mangiato anche il niente, che tratta questo sport come fosse una tazza di caffè (da bere rigorosamente senza zucchero), o i taralli sul lungo mare o ancora, la cortesia quasi impicciona tra sconosciuti alle fermate sempre affollate dell'autobus. Mai come un figlio, però, perché sia chiaro, esiste il calcio, e poi, e prima e durante, soprattutto durante, esiste IL Napoli. Quelle scritte quasi rassicuranti, da far impallidire per la loro caparbietà e ubiquità il più ribollente tifo ordinato di uno stadio inglese, "Ci siamo ma non ci tesseriamo", "la Fede prima di tutto", per arrivare alla definitiva "Alla base c'è il calcio" che si vede solo sulla fiancata di un'edicola chiusa, mi pare di ricordare, dove ho lasciato il cuore, poco prima di entrare in Piazza Dante.

Non ho visto ancora una partita, ma ho sicuramente respirato più calcio rispetto a qualsiasi gara rinviata per ordine pubblico durante la sera di Bulgaria-Italia, mentre ricoperto di sudore e con gli occhi stanchi per averli tenuti sbarrati tutto il giorno, aspettavo un panino che avrebbe alterato per sempre l'equilibrio del mio fegato, e rubavo minuti della partita dalla televisione del chioschetto di girarrosto, quando poi un passante è entrato assieme alla moglie incinta, cui era improvvisamente sopraggiunta voglia di girarrosto, e non appena si è accorto della Nazionale in tv la prima cosa che ha chiesto non è stata il risultato ma se Insigne (di Frattamaggiore) era sceso in campo.

È calcio anche girare per le strade durante una partita del Napoli, è scoprire il risultato calcolando il numero di volte in cui hai sentito suonare i clacson, è uno scudetto sbiadito, uno dei tanti, dipinto su un muro di un vicolo, uno dei tanti, accanto ai panni stesi e a tavoli dal compensato ormai divelto. E' calcio non tanto le statuette subito aggiornate di Ibrahimovic al PSG nei presepi di via San Gregorio (quello semmai potrebbe essere classificato come folklore) quanto il fiume azzurro di persone che invade la metro al termine della partita a Fuorigrotta, sono calcio i commenti di una signora in abito elegante di fronte a un hotel di lusso sui risultati del Milan la sera prima, perché appunto, il calcio si mastica, si impasta, esce dai rubinetti nelle case, lo si indossa come un vezzo o una necessità o un modo di vivere. E' calcio, soprattutto, il vecchietto che porta a spasso una bicicletta (o viceversa?) alle tre di una silente domenica pomeriggio, con il sole che picchia come ad agosto anche se è già settembre, mette giù il cavalletto, fermandosi in una piazzetta della provincia campana di fronte ai bar ancora o appena chiusi, appoggiando la radiolina modello transistor sintonizzata su Tutto il Calcio minuto per minuto all'interno del cestello di vimini, pieno di stracci, come se dovesse rimboccare le coperte a un bambino. E' calcio il suono discreto della voce dei radiocronisti, che attira i passanti, comprese madri di famiglia che chiedono "quanto stanno?" con la stessa anonima naturalezza con cui si chiede a tuo padre a tavola di passarti il sale. O ancora, il ristoratore a Sorrento che precisa al turista un po' troppo facilone che non esiste solo il Napoli, ma pure il Sorrento, appunto, è calcio il brulicare di differenze e di interessi di cortile anche in pochi chilometri quadrati.

E mentre ottobre mi buca le ruote della bici, e mentre il calcio sparisce dai nostri stadi e dalle tv in chiaro, io vedo calcio ovunque, in questo paese, e nella mia vita, anche. L'irrefrenabile impulso a sbirciare i titoli della Gazzetta in mano a un signore seduto su una panchina al parco, l'irrestibile richiamo di una vetrina di maglie ufficiali da gioco, che fanno sembrare le divise sociali modelli di Armani o Gucci, con la voglia di scoprire quel ricamo, quelle righe più strette o più larghe, che la nuova stagione autunno-inverno propone. E ancora, è calcio la volante della Municipale che chiude via Ortigara, alla domenica pomeriggio mentre sfreccio in bici poco distante, e butto la coda dell'occhio sulla rinascita di un mito cittadino defunto, la Spal ora caduta tra i dilettanti, eppure le porte dello stadio si aprono ancora, e le vie al traffico vengono chiuse, anche se riguardano un'area dolorosamente più ristretta rispetto a nemmeno pochi anni fa. Sento tutto il peso del calcio mentre tento di tenere in piedi la mia vita nella sala d'aspetto ormai abbandonata di una stazione della mia provincia, polverosa, con porte e infissi divelti, dove entra sempre il vento e dove Napoli arriva pure lì, sulle scritte dei muri che ormai nessuno si prende la cura di riverniciare. Sento il peso del calcio, mentre abbraccio la mia vita e vedo sulla panca di legno graffiato di fronte a me una fila interminabile di piccole figurine, scorgo il volto di Aldair, è calcio rompere la nuvola di tristezza pronunciando improvvisamente il nome di Aldair, e poi risalire, dai tagli delle maglie, a che stagione fosse, e provare a indovinare i volti dei calciatori ormai erosi dal tempo, che fanno sembrare il Bierhoff del 2000 un Piola in bianco e nero. Ottobre ci piove addosso, e sento il calcio che divide famiglie e amici ma avvicina pianeti e sistemi solari diversi sul divano di un sabato sera, come se fosse la cosa più ovvia del mondo, avvicinarsi, dico, ma pure guardare una partita insieme. Non ho ancora visto una partita di calcio, ma mi sembra comunque di viverlo abbastanza spesso, come quando ho provato a spiegare dove ho imparato la pazienza tifando per una squadra di calcio, appunto, o dove ho cercato di farti capire chi sono citando Alvaro Recoba e il suo esordio contro il Brescia, e le sue figuracce in Champions League, dove ho usato il calcio per raccontarti di quando ero piccolo, per far sembrare il passato quello che in fondo è, qualcosa di distante e che non torna, anche se continuo a guardare il Televideo, ma su un'applicazione per il mio iPhone. E' già ottobre e mi sento quasi nudo e sperduto, senza 90 minuti negli occhi, ma ho dovuto fare spazio per guardarti mentre leggevi spontaneamente la Gazzetta e mi sono ricordato, dopo averlo perso, che cosa fosse davvero il calcio e anche respirare, sì.

La generazione delle finali perse

Nel 1994 seguo i miei primi Mondiali da Bormio, almeno per quanto riguarda la gloriosa fase finale fatta di sistematici due a uno. Dico i miei primi Mondiali perché nel 1986 avevo solo tre anni e a Italia '90 tifavo Olanda e Germania, così per simpatia, tra mio padre incredulo: "Devi tifare Italia!" e mia mamma più cauta: "Lascia che tifi per chi vuole".

A Bormio c'era questa struttura enorme, una specie di palazzetto dello sport che si chiama Pentagono, dove avevano allestito un maxischermo per vedere Baggio più in grande, Zola più alto, Sacchi con la testa più lucida. Ma per la finale dobbiamo trasferirci a Folgarida, un piccolo centro montano dove avremmo trascorso qualche giorno raggiungendo mia nonna in vacanza. La finale va in onda su una piccola tv da campeggio tra parenti abbastanza disinteressati e una ragazza della mia città che casualmente è in villeggiatura da quelle parti, invitata all'ultimo a vedere una partita di cui forse non gliene importa nulla. Finisce con il tiro di Baggio sopra la traversa, le lacrime di Baresi, la torcida brasiliana e la voce di Pizzul che avrei eletto a mio personale nonno per tutto il decennio. Spenta la tv prima ancora di vedere la Selecao alzare la coppa, andiamo tutti a letto, che gli anziani già sbadigliano vista l'ora tarda. Incredulo, disperato, cerco di non piangere sotto le coperte ripetendo tra me e me

abbiamo perso il mondiale di calcio. abbiamo perso il mondiale di calcio. abbiamo perso il mondiale di calcio.

Solo quattro anni dopo il mio tifo controcorrente a Italia '90, a 11 anni il Mondiale di Calcio diventa la cosa più importante della mia semplice vita, qualcosa di cui disperarsi o gioire fino allo stremo.

Nel 1998 il giorno in cui usciamo da Francia '98 giochiamo contro i padroni di casa, superfavoriti benché assenti all'ultimo mondiale. Siamo in macchina diretti verso l'Ungheria, in uno dei molti viaggi in auto per l'Europa degli anni Novanta con la mia famiglia. All'ora della partita non siamo ancora arrivati così scopro l'utilità delle onde corte e capto scampoli di radio uno nemmeno fosse radio londra. Il tizio che ci attende per mostrarci l'appartamento ha una pistola con sè e ci impressiona un po' quando la posa sul tavolo spiegando che è solo per sicurezza:

- Voi non ne avete una? Fareste bene ad averla qui!

Ripreso dallo shock chiedo con straordinaria cautela se posso accendere la tv per seguire almeno i supplementari della partita, così nel caos generale, mentre l'uomo con la pistola firma il contratto di affitto e prende accordi con i miei genitori, mi dispero ancora una volta davanti alla tv per la traversa di Di Biagio. Sdong dice la traversa, mentre il calciatore cade a terra di schiena e Maldini Senior scuote la testa. Ancora una volta siamo fuori, non c'è nessuno intorno con cui urlare, non c'è niente da fare se non visitare Budapest, dove trovare un giornale italiano il giorno seguente sarebbe già stata un'impresa.

Nel 2000 quando i francesi ci uccellano al 93' togliendoci l'Europeo ormai vinto mi son già messo le scarpe per uscire a festeggiare. Fabio (quello che su queste pagine si fa chiamare Attimo), che è più cauto di me segue ancora attentamente la partita sapendo che in zona Cesarini può accadere di tutto. Infatti. Si resta in casa, si ripone la bandiera per seguire gli strazianti supplementari e il golden gol di quella faccia da furbetto di Trezeguet. Increduli, sgomenti, rimaniamo quasi un'ora a guardare tutte le interviste Rai del dopopartita nel silenzio più totale, sconvolti per un finale che definire beffardo è riduttivo, qualcosa che ridefinisce la sfortuna di Usa '94 e la maledizione dei rigori, specialmente dopo una serata esaltante ed incredibile come quella contro l'Olanda dove Toldo aveva parato ogni tipo di rigore.

Nel 2004 non doveva assolutamente finire 2 a 2 tra Svezia e Danimarca o il tanto agognato biscotto, di cui l'Italia ha sempre paura come pochi altri, sarebbe stato servito mandandoci a casa anzitempo dall'Europeo. Finisce guardacaso 2 a 2, veniamo eliminati e ci rimaniamo ancora una volta di merda, come siamo abituati a rimanerci noi dell'Ottantatrè, che non abbiamo fatto in tempo a vedere Tardelli e Altobelli esultare, e non abbiamo ancora vissuto Berlino due anni dopo. Andiamo a prendere un gelato consolatorio tra amici, uno di quelli grandi pieni di gusti e creme, con le cialde e il topping di cioccolato. Ci fanno accomodare e mentre aspettiamo realizziamo che il cubetto di legno per segnare il numero del nostro tavolo è il 22. Con un pennarello tracciamo una lineetta in mezzo: 2-2. Oltre il danno la beffa.

Tralasciando Byron Moreno e l'ironia che ne è seguita, lo stordimento delle Vuvuzelas due anni fa, il vuoto dell'Europeo 2008 e altre storie ancora, si arriva a ieri, carichi di speranze come solo una vittoria contro la Germania sa dare, tutto come Berlino 2006, ce la possiamo fare, ci mettiamo il cuore, eccetera eccetera. Al 45' iniziamo a guardare twitter, a mandare messaggi pieni di insulti agli amici, ad aprire altre birre, a constatare che la pizza di stasera è davvero buona. Diversivi per andare avanti, per consolarci di un finale drammatico dopo un'insperata cavalcata fino a quel punto. Talmente abituati a perdere sul più bello che quasi non sentiamo il dolore. Dopo traverse, arbitri venduti, biscotti, panini, rigori, furti e infortuni non poteva mancare al palmares anche il tracollo, il cappotto, la sonora batosta di un 4 a 0 epico. Quando si perde così fa meno male di un 2 a 1 sofferto e creduto fino alla fine. Ci si abitua con largo anticipo di minuti all'idea che si è perso, che a breve l'arbitro fischierà la fine e vedremo gioire ancora una volta l'avversario, senza che in fondo ci dia troppo fastidio. Perché restiamo una grande squadra, che ad ogni grande competizione sa di potersela giocare fino in fondo di nuovo. Vedremo altre finali, perderemo altre competizioni, qualcuna prima o poi la vinceremo ancora. La palla è tonda no? Non siamo l'Uganda, o la Svizzera. Come dice quel famoso canto:

siam campioni del mondo, pooo popopopo pooo pooo

I 4 colpi

E’ già tutto irrimediabilmente compromesso quando la palla viene blandamente respinta dalla difesa azzurra, sciolta come tanti cubetti di ghiaccio disseminati sul prato e dimenticati al sole, e inizia a planare verso il centrocampo. Siamo già nel secondo tempo, e siamo già affondati sotto le pugnalate della Spagna. Il pallone rinviato in qualche modo da Barzagli sembra un dirigibile forato, lascia dietro di sè una lunga scia di amarezza, e come una foglia morta, la palla cade flaccida nella zona di Andrea Pirlo, circondato da avversari molto più in forma di lui. Pirlo osserva il pallone con gli occhi spenti, una sfera che ancora non si adagia sul campo impedendogli di fare forse l’unica cosa che potrebbe salvare le sorti della nostra Nazionale: toccarlo con i piedi. Invece il pallone rimane sollevato da terra, sospinto da immanenti campo magnetici spagnoli che trascendono la gravità e i limiti umani, e così non può ascoltare le promesse che i piedi di Pirlo sarebbero pronti a fargli: “cadi pallone, e io ti porterò ancora una volta in spazi aperti, cadi pallone, lasciati prendere tra le mie gambe stanche e ancora una volta, forse l’ultima, io saprò ancora dirti le parole che vuoi sentirti dire”. Invece il pallone cadrà lontano, disegnando una parabola inutile su cui andranno ad appendersi gli occhi di Pirlo e le nostre speranze, bagnate come vestiti centrifugati, ed è in quel preciso momento che si manifesta tutta l’impotenza dell’Italia contro la Spagna. Perderemo 4 a 0, quattro(cento) colpi ai nostri sogni covati durante giugno che non hanno saputo resistere all’estate. Primule sfiorite.

Se siamo arrivati a singhiozzare dopo una finale di un Europeo, lo dobbiamo essenzialmente al curato di provincia che ha rivoluzionato il nostro modo di giocare a pallone. Prandelli ci ha portato a giocarci la coppa con la Spagna, a dispetto di limiti strutturali nella rosa e nel movimento, e forse sarebbe giusto giudicare anche la finale attraverso i suoi insegnamenti. Ma le quattro ferite che portano i nostri ideali fanno liberare le gabbie dentro cui abbiamo tenuto nascosto gli avvoltoi, che già iniziano a volteggiare sugli schermi televisivi, sui giornali del giorno dopo e sulle teste di molti italiani che giocano a fare i tifosi.
Partita dopo partita, in questo Europeo abbiamo scardinato porte di antichi pregiudizi e retaggi insormontabili. Nessun nemico al nostro fianco, nessun salvatore della patria uscito dal cilindro, nessuna trincea scavata nell’erba. Molte parabole, sul nostro cammino, quella dell’Insegnamento, della Presa di Coscienza, dell’Ottimismo e dell’Attesa, valori quasi contadini innestati nel cuore di bulletti e mangiatori di merendine che si sono ricordati come si sta in campo. Restava l’ultima porta, da aprire, la porta del Trionfo, unico e definitivo giudice che dirime tra buoni e cattivi. Ad attenderci, al suo interno, seducenti femmine che intrecciavano passaggi come fossero acconciature, che lavoravano la palla come merletti, bagnando la punta dell’ago con il nostro sudore. Siamo arrivati di fronte ai Campioni di Tutto armati soltanto dello stupore per esserci, prima di tutto. Ma già sfiniti, sfibrati, sparpagliati sul tavolo in milioni di pezzettini: il prezzo da pagare, per superare se stessi. E’ finita nell’unico modo in cui poteva finire, come quando si sogna abbastanza da muoversi nel letto, e si cade sul pavimento sbattendo la testa. Lacrime.

Prima ancora di stabilire l’utilità di certe sostituzioni (panettone Motta), o di brandire il manifesto del logorio fisico (sebbene a mio modo decisivo, a parità di energie sarebbe finita ben diversamente, perlomeno nelle proporzioni della sconfitta), Spagna-Italia ci ha ricordato come non sempre basta voler essere felici, per esserlo davvero. Eppure fermiamoci a un passo prima, sul ciglio della porta, appunto, fermiamoci allo snodo decisivo di questa Storia in sei atti, mentre studenti erasmus iberici ghermiscono le nostre piazze svuotate immediatamente dalle lacrime puerili di Bonucci e Balotelli.
Ho amato molto questa Nazionale 2012 di Prandelli non perché sia arrivata così vicino dal vincere, o perché ci abbia mostrato un livello di gioco moderno ma ragionevole, affascinante senza scadere nello stucchevole, dal piglio artigianale, di quelle cose fatte a mano che sanno unire grazia nei movimenti e praticità negli approcci. No, ho amato questa Storia se vogliamo molto da oratorio, quasi da fiction di Raiuno, per averci inchiodato ai divani e ai maxischermi con una semplice domanda: vogliamo provare ad essere felici, ogni tanto? Aldilà dei moduli tattici, delle giocate dei singoli e dello spirito di gruppo (concetti se vogliamo anche un po’ aleatori, funzionano quando funzionano, un po’ come gli oroscopi che ci prendono il giorno dopo), resta prima e dopo di tutto questa domanda.

C’è stato un momento, nella storia del Calcio italiano, in cui la Nazionale si è fatta questa domanda, e di riflesso l’ha posta a noi, vogliamo provare ad essere felici, almeno una volta, ogni tanto? Una domanda da tradurre in campo, e non nell’economia, nella politica e nelle nostre vite di tutti i giorni, perché trattasi sempre di partite, o di metafore, eventualmente, ma qui nessuno ha il fegato di spacciarle per consigli di vita. Per una Nazionale avere voglia di essere felici è cercare di vincere rinnegando retaggi, proponendo un centrocampo di piedi buoni e idee argute, quasi divertendosi, a giocare in modo illuminato, provando a inventare qualcosa, invece che distruggere soltanto. E’ solo calcio, deve aver detto Prandelli negli spogliatoi, ed è tutto qui: è solo provare ad essere felici, deve aver chiesto Prandelli ai suoi giocatori, e se dopo un Europeo così, ci è venuto il dubbio anche a noi che guardavamo soltanto, forse essere tifosi della Nazionale ha ancora un qualcosa di dignitoso.

Ed è molto inquietante e molto inevitabile, in un certo senso, vedere come porci certe domande, su di noi, e sulla felicità, abbia frantumato le ginocchia di De Rossi, abbia colorato di rosso gli occhi del nostro pianista, Andrea Pirlo, ci abbia fatto precipitare come primule sfiorite. Sommersi dalla maestria spagnola, da 4 colpi alle nostre velleità che ora, spenti i riflettori, ora che si torna alla normalità disgustosa del calcio italiano, rimarranno davvero molto sole. Lontanissime da qui.

(su Someone Still Loves You, Bruno Pizzul ho fatto le due ogni notte dopo la partita della Nazionale, provando a tracciare un bilancio più emotivo che tecnico. Questa è l'ultima analisi emocore, quella della Finale. Ed è solo calcio, per fortuna)

Qualcuno scriva una canzone sul rigore a cucchiaio di Pirlo

Mi perdoni l'Italia pallonara tutta se questa Nazionale di Calcio non mi scalda il cuore come quella Campione del 2006, che a sua volta non mi aveva scaldato il cuore fino forse alla botta di culo con l'Australia e la conseguente travolgente cavalcata finale di cui forse più di ogni altro momento ricordiamo la sera di Italia Germania, il gol di Mio Dio Fabio Grosso e poi i cori in piazza tedesco-mangia-la-pizza eccetera eccetera. Non mi suscita alcuna simpatia Balotelli, inutile in ogni partita, buono solo per il gossip dei tabloid inglesi ma di fatto egoista e sperduto nell'attacco europeo della Nazionale di Prandelli. Non voglio diventi campione d'Europa uno come lui, non voglio diventi campione uno come Montolivo, Maggio, Thiago Motta.

Vorrei potermi concentrare solo sulle cose che contano in tutta questa faccenda e non sono poche. Sul piatto della bilancia contano più di un Balotelli qualunque, più di una prestazione scialba di Cassano, più di una telecronaca noiosa di Gentili:

- il rigore tirato freddamente a cucchiaio di Pirlo, una classe esagerata - quasi imbarazzante in una nazionale di giovincelli senza carisma - a muso duro senza esultare dopo un gesto simile in un momento in cui era fondamentale trasformare dal dischetto dopo l'errore di Montolivo, qualcosa che rimarrà nella storia del calcio come quello di Totti nel 2000 ("Mo je faccio er cucchiaio"), di Fabio Grosso nel 2006 ("Il cielo è azzurro sopra Berlino!") e di Baggio nel 1994 ("ALTO!"). Fossimo andati a casa dopo un simile rigore - per quanto mi riguarda - sarei stato ugualmente soddisfatto. Da oggi sul dizionario alla voce "epica".

- gli azzurri in cerchio che si danno la carica prima dei calci di rigore, con la grinta trascinatrice di Buffon Santo Subito, momenti che uno sport di squadra dovrebbe avere sempre (cfr. Ogni maledetta domenica per esempio) e invece vedi spesso solo nei film.

- la classe di Prandelli, elegante, sorridente, tranquillo, in un abitino da sera perfetto, scarpa lucida, pantalone attillato. Un figurino che batte ogni confronto con gli altri allenatori e supera di gran lunga in simpatia Lippi Papa.

- il mal di pancia tipico da Nazionale, che non provavo più dai supplementari di Italia-Francia del 2006, capace di piantarmi sullo stomaco perfino un innocente piatto di prosciutto e melone.

- le partite davanti alla tv con gli amici di sempre come fosse un rito, il bandierone, la torcida lungo il viale principale della mia città strombazzando e sventolando il tricolore da ignoranti, cosa che attendevamo di poter finalmente fare, fosse anche solo per una sera, in questo faticosissimo duemiladodici. Bentornato Simo.

Cinque cose che forse già sapete su Euro 2012

Cinque-cose-cinque che forse alcuni di voi non avranno notato sull'Europeo in corso in Polonia e Ucraina, lanciato dal dignitoso esordio dell'Italia di ieri contro lo Spagna:

1) Prima di Russia-Rep.Ceca, con i calciatori schierati nel sottopassaggio in attesa di entrare in campo, i diffusori dello stadio hanno sparato niente meno che un pezzo degli XX. In generale si avverte un uso leggermente meno scontato della musica, quanto mai presente in tutti i momenti morti della partita: prima, dopo e durante. Ma vado a sensazioni, anche perché il becerume tipico da Grandi Eventi Commerciali riemerge prepontemente dopo i gol di Spagna-Italia di ieri, quando è stato sparato dalle casse il jingle di Seven Nation Army, non solo per gli Azzurri ma anche per gli spagnoli, che senza fare una piega l'hanno intonato esultanti.

2) Nella lista dei Tormentoni da Grandi Eventi Calcistici, se compare saldamente in testa l'Inadeguatezza dei cronisti Rai, oltre agli occhiali di Marco Mazzocchi, sembra latitare un po' a sorpresa quello relativo al Pallone, negli ultimi anni diventato palla rotante degna di Holly e Benji, con traiettorie confuse come l'inglese di Trapattoni e dai colori improbabili. Forse tornare (almeno) al design del glorioso Tango è servito a realizzare palloni decenti? La forma prima di tutto.

3) Capitolo Maglie: il colletto dell'Italia con tricolore invertito si commenta da solo. La Spagna rinuncia inspiegabilmente a mostrare la toppa da Campione del Mondo sul petto. Vince per sobrietà e pulizia delle linee la divisa del Portogallo, in attesa di ammirare la maglia dei francesi, totalmente blu e ispirata a canoni buoni per un abbigliamento da strada che alla reale storia calcistica dei galletti.

4) All'improvviso lo striming. L'esclusiva della Rai ha portato non solo svantaggi giornalistici derivati dall'imbarazzante stato di preparazione dei cronisti parastatali, ma anche il vantaggio non indifferente di poter seguire le partite *davvero* ovunque: tv, radio, tablet, iphone, web. Ma il tempo di latenza della trasmissione su internet riporta in auge il ritardo sulla visione, già segnalato ai tempi della coesistenza Rai-etere / Sky-satellite: il segnale arriva dopo, e le persone che seguono su internet hanno il non indifferente problema di esultare dopo. Che fare? Fingere lo stesso gioia, seppure postuma, oppure cedere alla frustrazione da coito ritardato?
Aggiungo una nota tecnica per i più malati. Sulla piattaforma video della Rai è possibile rivedere le partite per intiero. Ok, farebbero comodo anche pratici "highlights" da una botta e via (come Sky e Mediaset sanno saggiamente fare), ma uno scatto nel futuro comunque c'è: a lato della finestra video, infatti, c'è un menu con l'elenco delle azioni salienti. Una serie di segnalibri che consentono di saltare direttamente all'azione incriminata, un modo interattivo, perlomeno, di godersi la visione della partita e costruirsi in proprio, seppure artigianalmente, il proprio '90 minuto'.

5) Il calcio al tempo dei social network: forse è davvero il primo grande evento calcistico seguito con un adeguato equipaggiamento di smartphone tra la popolazione. Proliferano, alimentate anche dai ragazzi di SSLYBP e il buon Enver, le dirette testuali delle partite (vedi hashtag #lira2012). Almeno, per me si tratta della prima volta, e posso assicurare che seguire i commenti su Twitter E allo stesso tempo guardare la partita, è quasi impossibile. Carenze mie di multitasking? Sta di fatto che al termine del primo tempo, tra un commento sulla partita e un pacchetto di Pai d'oro da aprire, ho scelto la seconda. Se non hai le dita sporche di patatine non è calcio (semicit.)

(questo post l'ho scritto per Someone Still Loves You Bruno Pizzul, il blog a più piedi dove si parla di calcio non parlandone, o viceversa)

I ciclisti sono matti

Muore un ciclista al Giro d'Italia. Gianni Mura scrive un pezzo stellare. Qui si piange.

Un ciclista non sogna certo di morire, ma sa che può capitargli. Un ciclista sogna la grande fuga, l'andar via da tutti, l'isolamento, tutte cose che sono l'altra faccia della morte ma in qualche modo la evocano. Il ciclista è un personaggio buzzatiano, e infatti Buzzati sui ciclisti ha scritto pezzi bellissimi: a volte, come i messaggeri dell'imperatore, si spinge così lontano che non torna più. Il ciclista può essere Bertoldo. Un vecchio suiveur, ma ormai lo sono anch'io, mi ha raccontato di un gregario toscano al Tour negli anni '50, sono indeciso tra Ferlenghi e Falaschi. Allora, si raccoglievano le dichiarazioni di tutti gli italiani, non solo di Bartali o Coppi. "Com'è andata, eh?" indagò un giovane cronista al termine di un tappone pirenaico sotto un sole che c'è solo sui Pirenei. "Su e giù, su e giù, come pulirsi il culo a revolverate" fu la risposta.

Lo strano caso del Digitale Terrestre

Questa cosa che Dan Peterson torna ad allenare dopo 25 anni passati a bere tè freddo a bordo di piscine californiane mi ha decisamente scosso e mosso un fremito interiore. Dan Peterson, dopo 25 anni al sole della California circondato da ragazze bionde dalla dubbia morale e con un insospettabile accento ferrarese e atteggiamenti da magnaccio piacione, si infila di nuovo le scarpette (rosse, per l'occasione) allenerà la sbrindellata Olimpia Milano, un tempo squadrone che tremare il mondo fa e ora invece sbrindellata compagine lombarda che si schianta a Cantù nell'ultima partita. Il tempo passa per tutti, per le storiche squadre di basket ma non per Dan Lipton Ice Tea Peterson, che dice di "aver perso una notte di sonno, ma che all'Olimpia non poteva proprio dire di no".

Tralasciando per un attimo il discorso puramente sportivo, visto che tenere per anni una rubrica sulla Gazzetta (la Gazzetta dei nostri giorni, peraltro) non sia automaticamente garanzia di aggiornamento professionale, il ritorno di Dan apre scenari inquietanti su le vite di ciascuno di noi. Qui gli si vuole bene come a un figlio, al nostro Dan, anche perché ha traviato le nostre estati con sorsate di tè chimico che sapeva di tutto tranne che di tè, ma come resistere al tintinnio dei cubetti dentro quel bicchierone enorme e volgare directly from Californiaaa? Non si poteva, e infatti siamo cresciuti come siamo cresciuti, ma pensavamo di aver confinato Dan Peterson nel museo delle cere viventi, eppure ce lo ritroveremo a bordo campo a urlare di nuovo ai suoi "ragazzi" che devono "sputare sangue". Dan, fermati un attimo, vorrei farti notare due cose: il tuo labiale (vedi il video culto che anticipa di anni et anni tutte le parodie possibili inventate poi sulla Rete) è inequivocabile, e che noi qui si sputa sangue da appunto 25 anni. E adesso torni tu, e pretendi che non sia cambiato nulla? FENOMENALE.

E invece ci tocca vivere in un mondo dove ancora tutti si ricordano perfettamente le mosse del Gioca Jouer di Cecchetto (prossimo ritorno?), ma non possiamo più ammirare Uan in Uanathan, o quelle interminabili puntate dove sempre Uan e Bonolis trasmettavano dal Polo Nord, episodi memorabili di un tv fatta coi piedi ma artigianalmente, almeno, mentre ora ci sono rimasti solo i piedi e al pomeriggio i cartoni nemmeno li danno più. Dan, torni dalla California e vuoi che sputiamo sangue mentre oggi i bambini crescono con una tv che al pomeriggio manda i troioni di Uomini e Donne e non Mila e Shiro, e poi uno si chiede il crollo delle vocazioni per la pallavolo.

Dan, è cambiato tutto, e il tuo ritorno su una panchina come se nulla fosse è il crack del 2011, il vero evento di un decennio abortito, che si ripiega su stesso come nemmeno i sogni di Inception, dove il tempo reale è diventato a pagamento, e infatti noi poveracci che armeggiamo con la banda quinta sopra al tetto umido, Dan mio, non ti vedremo, ma ti vedranno soltanto le gens illuminate di Sky, quelle per cui 2011 non significa i Robinson su K2 o Happy Days su Mediaset Extra o i film di Tomas Milian su Rai Movie, ma, che so, allenatori milanisti sulla panchina dell'Inter, ovvero NOVITA', cose mai viste e soprattutto in orario.

Ci hanno tolto tutto Dan, e sputare sangue proprio non ne abbiamo voglia, al massimo possiamo assaggiare un bicchiere di tè alla pesca (l'invenzione peggiore del secolo, seconda solo al Tè Deteinato), senza ghiaccio magari, ma ormai non abbiamo più nemmeno l'edizione regionale del Tg3, ora non so chi abita nelle altre provincie dell'Emilia e della Romagna, ma noi qui a Ferrara dal giorno del suic of ci tocca sopportare l'edizione del Veneto, e quindi le alte maree lagunari, il servizio sulle nevi della Perla delle Dolomiti, le dichiarazioni fasciste di Zaia o Tosi o chi per lui, o i gol del Cittadella o del Portogruaro, tutte cose a loro modo interessanti (io a Venezia ci lavoro per dire) ma grazie, io quando torno a casa alla sera voglio sentire le mie radici, e guardare la cosa più triste in tv dopo Omnibus del mattino, ovvero il Tg Regionale, e invece noi ferraresi siamo stati cancellati dalla mappa del Diggitaletterrestre e ci propinano tutti i giorni l'edizione veneta. Dan, io lo sputo anche il sangue sul decoder, tutti i giorni gli parlo, lo accarezzo, tutti i giorni lo sottopongo a corroboranti sedute di Risintonizzazione automatica dei canali, ma niente, salta sempre fuori la malefica scritta Veneto, e oltre a non vedere più Mentana mi tocca perdere anche le imprenscidibili sagre da Bagno di Romagna o di Verghereto, ed è un colpo troppo forte per tirarsi su. FENOMENALE.

Gente per bene

Enzo Bearzot

(via IlPost)

Dicesi ‘bici’

Se vi chiedono cos'è la bicicletta, voi rispondete così:

Sole, acqua, sudore negli occhi, strade sbagliate, aratri a bordo strada incrostati di terra, fumo di grigliate, insetti che entrano nella maglietta, gattini sonnolenti nell'erba, freni surriscaldati, incontri a metà strada, semafori rossi, lattine di cocacola masticate, il grasso della catena, la Madonna (di Sanluca, ma pur sempre la Madonna) e tanti, tanti alberi. Mai troppi.

Scendere dal pero

Forse non sarebbe opportuno scrivere a cadavere ancora caldo, bisognerebbe analizzare, capire, leggere ed elaborare, come si è soliti dire. Però siamo usciti al primo turno e quindi il nostro desiderio più grosso già da un'oretta a questa parte è quello di dimenticare il più in fretta possibile questo sfacelo.

Dimenticare che Lippi aveva lasciato da vincente ed è voluto tornare sapendo benissimo che non era aria e non sarebbe stata la stessa cosa. Testardo nelle scelte (errate) e nella presunzione che tutto dipendesse esclusivamente dalla sfortuna. Il vincente che torna sui suoi passi qualche anno dopo, per inciso, raramente trova gloria, l'ultimo esempio sportivo evidente mi pare sia quello di Schumi.

Dimenticare che siamo stati a ridere della Francia due settimane solo perchè andavano a picco in un clima di contestazione generale verso il proprio allenatore e non ci siamo accorti della trave nel nostro occhio solo perchè avevamo vinto un titolo quattro anni fa e quindi eravamo più forti.

Dimenticare che siamo stati a guardare Pepe e Montolivo per tre partite e a giustificarli con un beh dai tutto sommato, mentre in difesa un cadavere di nome Fabio e cognome Cannavaro ci faceva vergognare della fascetta di capitano che aveva indosso.

Dimenticare che la squadra che ha vinto il campionato italiano ha contribuito alla Nazionale in campo con la bellezza di zero giocatori e che il problema del ricambio generazionale tra i giocatori italiani era noto da tempo, ma finchè non ci sbattiamo il muso fino in fondo, finchè non scadiamo nel ridicolo, non ci occupiamo dei problemi (vedi l'assurdo colpo di reni negli ultimi dieci minuti dell'ultima partita dopo tre match di sonno, ma in generale un po' l'andazzo italico di tutta la nostra classe dirigente).

Dimenticare che vincere un mondiale non significa proprio niente quattro anni dopo con altri giocatori e altre situazioni, e che Brasile a parte forse, nessuna squadra può ritenersi campione a prescindere in ogni tempo e competizione. Un pizzico di umiltà in più tante volte non guasta e nell'Italia pallonara manca spesso, a maggior ragione dopo il 2006.

Vorrà dire che staremo a guardarci le quattro stellette sulla maglia, mentre squadrine da sorteggio ridicolo cresceranno anno dopo anno e zitte zitte ci sorpasseranno a destra mentre noi, che siamo campioni blasonati, ancora penseremo di passare per classifiche avulse, autogol, rigori regalati e rocamboleschi incastri del destino. D'altronde l'Italietta è proprio questa, e il calcio ne è il suo più adorabile quanto ridicolo specchio.

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(The Times)

Una lieta sorpresa dal paese delle zanzare e della nebbia fitta. Con Ciccsoft L'Italia riacquista un posto di primo piano nell'Europa dei Grandi.
(Frankfurter Zeitung)

Il nuovo che avanza nel mondo dei blog, nonostante noi non ci abbiamo mai capito nulla.
(La Repubblica)

Quando li abbiamo visti davanti al nostro portone in Via Solferino, capimmo subito che sarebbero andati lontano. Poi infatti sono entrati.
(Il Corriere della Sera)

L'abbiam capito subito che di sport non capiscono una borsa, anzi un borsone. Meno male che non gli abbiamo aperto la porta!
(La Gazzetta dello Sport)

Vogliono fare giornalismo ma non sono minimamente all'altezza. Piuttosto che vadano a lavorare, ragazzetti pidocchiosi!
(Il Giornale)

Ci hanno riempito di tagliandi per vincere il concorso come Gruppo dell'anno. Ma chi si credono di essere?
(La Nuova Ferrara)

Giovani, belli e poveri. Cosa volere di più? Nell'Italia di Berlusconi un sito dinamico e irriverente si fa strada come può.
(Il Resto del Carlino)

Cagnazz è il Mickey Mouse dell'era moderna e le tavole dei Neuroni, arte pura.
Topolino)

Un sito dai mille risvolti, una miniera di informazioni, talvolta false, ma sicuramente ben raccontate.
(PC professionale)

Un altro blog è possibile.
(Diario)

Lunghissimo e talvolta confuso nella trama, offre numerosi spunti di interpretazione. Ottime scenografie grazie anche ai quadri del Dovigo.
(Ciak)

Scandalo! Nemmeno Selvaggia Lucarelli ha osato tanto!
(Novella duemila)

Indovinello
Sarebbe pur'esso un bel sito
da tanti ragazzi scavato
parecchio ci avevan trovato
dei resti di un tempo passato.
(La Settimana Enigmistica)

Troppo lento all'accensione. Però poi merita. Maial se merita!
(Elaborare)

I fighetti del pc della nostra generazione. Ma si bruceranno presto come tutti gli altri. Oh yes!
(Rolling Stone)

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