Berlusconi: "Se escono le mie telefonate lascio l'Italia". Come Craxi.
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E' tutto un equilibrio sopra la follia
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Berlusconi: "Se escono le mie telefonate lascio l'Italia". Come Craxi.
Leonardo, con un post dei suoi, alza il velo su un dubbio più diffuso di quanto si pensi riguardo al successo di Le Luci della Centrale Elettrica. Subito si apre il dibattito: perchè Vasco Brondi non piace a tutti quelli cui dovrebbe piacere?
La questione è meno pelosa di quanto possa sembrare, e apre mille rivoli generazionali, per non dire "attitudinali". I testi di Vasco, oltre al suono della sua voce rauca che grida "rabbia" (che poi sempre rabbia non è) e agli accordi monocordi, non sempre colpiscono l'immaginario di tutti noi. E ci mancherebbe. C'è chi resta interdetto, anzi "indifferente" e si chiede se forse è lui ad essere rimasto alla fermata precedente. Strano definirsi già troppo vecchi per chi è cresciuto a pane, Ferretti e Clementi, forse la questione andrebbe spostata più su come gli Auto-Esclusi dal Circo Brondi abbiano digerito praticamente tutto il proprio immaginario musicale-culturale-sociale. In che cosa si siano trasformati, insomma, che li impedisca di sintonizzarsi sull'onda delle Luci.
Pure a me che lo seguo dai suoi primi chilometri di scontrini, ogni tanto pare di sentire soltanto rumore di niente: nient'altro che una fortunata miscela di frasi azzeccate, tenute insieme con lo stesso scotch bianco stampato sopra la sua chitarra. Gridate con quella rabbia, appunto, che rabbia secondo me non è, e perciò non fa incazzare: fa immedesimare, perchè non (ti) strappa ma evoca, non brucia ma riscalda un intero sentire umano comune a questi cazzo di anni zero. La differenza è che finora nessuno l'aveva fatto: lui sì, e ci è andato maledettamente vicino. I CCCP non ci sono più, e l'assenza si fa sentire.
Forse ci sarebbe pure un'altra via per dirimere la Questione Vasco Brondi, oltre al fattore generazionale. Una discriminante probabilmente campata in aria e non prevista nelle intenzioni: essere o non essere di Ferrara, la città di Vasco e pure (che coincidenza) la mia. Vero, le canzoni delle Luci possono vestire qualsiasi scenario provinciale/metropolitano (e infatti suonate a Milano ci stanno benissimo), ma solo chi è impregnato di nebbia e gigantesche scritte coop può distinguere le Centrali Elettriche. Se sei di Ferrara puoi addirittura averle viste, e sapere che in realtà non di centrali si tratta ma di uno squallido Petrolchimico. Chi non è di Ferrara non può ricordarsi la sensazione primordiale vissuta all'altezza del casello di Ferrara Nord nello stagliarsi sullo "skyline" tutti i bagliori del Petrolchimico di notte, che sembra di stare tornando da un lungo viaggio in una New York adagiata sulle valli bonificate. Lo sai che quella è merda chimica, non è New York ma Ferrara, lo sai che è un buco nero che brilla eppure ti fermi lo stesso ai bordi di un cavalcavia con la macchina accesa di fianco ai fossi e alle pantegane, per fotografare quello spettacolo. Non pensi a niente. Pensi solo che sia bellissimo.
C'è una differenza inevitabile che divide gli ascoltatori de Le Luci della Centrale Elettrica tra chi ha vissuto qui e chi no. Una casuale differenza che ti fa drighignare i denti quando senti Vasco implorare di trasformare questa cazzo di città in un'altra cazzo di città, e ti viene voglia di candidarlo a sindaco dei tuoi neurotrasmettitori avviliti.
Sono immerso nei momenti frenetici dell'ultima giornata pre-natalizia in ufficio. Si suda e si lotta.
Devo inviare una mail a un membro di una giunta, la signora di nome fa Giusy e di cognome Qualcosa.
Scrivo, controllo l'indirizzo, e premo convinto sul pulsante Invia.
Mangio di straforo un dolcetto, sono le 20 e sono in ufficio da troppe ore. Mentre mi giro noto un dettaglio compromettente nella mail che ho appena inviato, ormai lanciata nell'etere:
Alla cortese attenzione di Giusy Ferreri
Deglutisco. Il mio subconscio inizia a sghignazzare. Mi guardo attorno, sono solo con la mia inspiegabile vergogna. Premo il tasto canc sulla mail inviata, gesto inutile che serve solo per non lasciare tracce, e me ne vado a casa.
Buon Natale.
[Dedicato a chi ha pensato,
almeno una volta nella vita,
che non poter morire per amore
sia un peccato.]
Meg Ryan, se la guardi bene, ma molto bene, attentamente, e col cuore leggero, assomiglia spaventosamente a Billy Boyd, l'attore che ha interpretato, tra gli altri, Pipino, nella Trilogia de "Il Signore degli Anelli". Ha la stessa boccuccia a triangolo e i medesimi occhi, un identico naso adunco e perfino in certi atteggiamenti Meg Ryan ricorda tantissimo Billy Boyd. Recentemente, rivedendo "Harry ti presento Sally", mi sono subito reso conto di due cose: la prima è che Meg Ryan e Pipino sono identici, la seconda è che io amerei incondizionatamente, e più di qualsiasi altra donna della realtà o del cinema, la Meg Ryan di "Harry ti presento Sally", nonostante in certe espressioni, soprattutto quando piange e ordina al ristorante o si abbassa gli occhiali sulla punta del naso, o sorride ironicamente di qualcosa che in realtà non la fa sorridere per niente, diventi identica a Billy Boyd, verso il quale non nutro alcuna passione sentimentale. Quella Meg Ryan lì, solo quella Meg Ryan lì, è fantastica: non so se Rob Reiner, il regista, fosse innamorato di una donna simile quando, insieme ai suoi collaboratori, scrisse la sceneggiatura del film, io glielo auguro perché deve essere semplicemente bellissimo amare una donna in grado di indossare dei pantaloni a scacchi con tanta disinvoltura, comunque sia resta il fatto che io una così la prenderei e comincerei, tutti i giorni, ad auspicare di essere esattamente l'uomo fatto apposta per lei fino a sfiancarmi. La corteggerei così forte da farmi uscire il sangue dal naso.
Quella Meg Ryan lì io credo di amarla, proprio di amarla, come un ragazzino può amare la Stella della Senna, o Creamy, Lamù, o uno di quei personaggi dei cartoni animati in calzamaglia. La amo con la consapevolezza che non esiste una femmina del genere, perciò il mio sentimento è purissimo, incondizionato, senza tentennamenti. E' un amore letterario, ideale, catastrofico. Quando sorride, quella Meg Ryan lì, e dalle labbra sottili spuntano solo le gengive e quasi mai i denti, a meno che il sorriso non sia veramente largo, e lei non sorride mai a tal punto, ebbene io la amo, senza dubbi. La amo di quell'amore che uno ne deve parlare con gli amici migliori subito, quella sera stessa, offrendo da bere a tutti, senza neppure sapere se si tratta di un amore ricambiato o meno. Amo quella Meg Ryan lì che ogni volta che sta per baciare qualcuno si blocca, come un cerbiatto che ha appena scoperto il proprio riflesso nell'acqua, e spalanca gli occhi perché si è ricordata di qualcosa e allora il bacio, quel bacio che stava per scoccare, un bacio importante o un bacio qualunque, si blocca, si interrompe, viene rimandato, come tutte quelle conversazioni che vengono spezzate dall'arrivo di un cameriere e mai più riprese.
Amo quella Meg Ryan lì, la amo in tutte le posizioni che lei mi obbliga a cambiare sulla poltrona mentre guardo "Harry ti presento Sally" e sono a disagio, in imbarazzo per tutto il tempo che improvvisamente mi pare di aver perduto dietro ad altre donne, la amo mentre ordina un Bloody Mary sull'aereo, tre quarti di succo di pomodoro e solo una spruzzatina di vodka, mi raccomando, solo una spruzzatina, la amo, la adoro, stento a tenere gli occhi da qualsiasi altra parte che non sia il suo viso, quando dice a Billy Christal: "Sembri una persona normale, invece sei l'angelo della morte".
Improvvisamente sono in un museo delle cere, un museo delle cere incredibile, dove invece dei vari George Clooney, JFK, Adolf Hitler, Marlon Brando e Paris Hilton, sotto i faretti ci sono le sagome realistiche di tutte le donne che mi sono fatto piacere e in questo museo pazzesco ci sono io che giro intorno a queste statue di cera, mentre i turisti giapponesi scattano fotografie col flash nonostante i divieti appesi alle pareti. Ci sono io che guardo tutte queste statue di cera di donne che ho conosciuto, toccato, amato, le osservo, le studio e mi accorgo che tutte quante sono parafrasi di quella Meg Ryan lì, delle imitazioni, ognuna di loro ha almeno un vezzo, un pregio e un difetto di quella Meg Ryan lì, solo che nessuna è veramente come lei. Nessuna di loro riesce ad essere bellissima, attraente e imprevedibilmente femmina, essendo al contempo la fotocopia di Billy Boyd, il Pipino di Peter Jackson. Deve esserci una sala segreta in questo museo delle cere dell'altro mondo, anzi c'è di sicuro perché ci sono appena entrato dentro, e in questa sala segreta si possono fondere in un enorme calderone ribollente tutte le statue di cera delle donne che m'è parso di amare e il risultato che viene fuori da un bocchettone di rame è un'altra statua di cera identica a Billy Boyd, solo che non è Billy Boyd ma è quella Meg Ryan lì, quella del film, e io sarei in grado di cominciare immediatamente ad amare questa creatura strana, magra e incapace di mantenere lo stesso taglio di capelli per più di sei mesi e di indovinare un modello di pantaloni decente. La prenderei sotto braccio e la porterei via dal museo delle cere pazzesco, inseguito dai turisti cinesi e dalle guardie di sicurezza.
Dev'essere anche New York che me la fa amare in tal modo, non dico di no. Quella Meg Ryan lì è immersa in questa New York per la quale impazzisco. New York, d'altra parte, è la città che quando ci ripenso mi sembra di starmene lì a ripensare a una donna. Perciò mi succede in tutti quei film in cui New York è in qualche modo anche lei la protagonista, di innamorarmi perdutamente dei personaggi che vi si muovono all'interno: ogni volta che c'è una panoramica sull'Hudson River, sulla baia, sulla fila di moli romantici e invecchiati, i "pier", dietro i quali si alzano le più moderne forme di civiltà e progresso, mescolandosi in un modo che non lo so nemmeno io come ma funziona benissimo, mi viene da abbracciarmi da solo come una di quelle eleganti signore infreddolite che camminano al vento, appena uscite da un locale chiccoso dopo un té caldo. Mi viene semplicemente da sospirare e dire: "Ah..." con tutta una serie di puntini sospensivi. New York è la città più bella, romantica, fredda, caotica, incantata e disincantata, crudele e accogliente che abbia mai visto, il posto che mi ha fatto sentire più a mio agio tra tutti quelli in cui sono stato, e credo che non sia molto diversa da una donna stupenda che ogni tanto assomiglia anche a Billy Boyd. Mandano note di Jazz dentro gli Starbucks, per dire. Quella è gente che sa come farti passare una bella giornata, ecco.
New York sa fare di questi giochetti, perciò dev'essere anche merito suo se amo a tal punto quella Meg Ryan lì. C'è una scena del film in cui lei e Billy Christal stanno parlando a Central Park e l'inverno è appena cominciato e ci sono tutte le foglie che girano e io lo so che quelle foglie sono state scaricate da poco da tizi in uniforme, lo so che ci sono enormi ventilatori per il vento e so che dietro quella faccia che io amo ci sta anche tutta una serie di persone, registi, truccatori, sceneggiatori, produttori con l'occhio all'orologio, so tutto, è davvero come l'amore, l'amore quello vero, so bene che è tutta una finzione, un gioco delle parti, uno splendido meccanismo che presto o tardi finirà, come tutte le cose belle finiscono, dai cornetti con la crema alla vita, ne sono consapevole, eppure quel vento posticcio, quelle foglie tirate fuori poco prima da giganteschi sacchi neri e fatte venire per corrispondenza dal New England, fanno ai capelli di Meg Ryan qualcosa di REALE che mi obbliga a sbattere gli occhi e stringere il telecomando col rischio di cambiare accidentalmente canale. La guardo, mentre perfino le ciglia mi sembrano amabili, e vorrei telefonarle per dirle dei miei sentimenti. Dirle, ehi Meg, se sei il 15% di quella Meg Ryan lì, allora senti, parliamone, perché io ti amo e non c'è un giorno della mia vita che non passerei architettando il modo per farti stare bene. Davvero dico. Mi senti? Com'è il tempo laggiù? Qui è sempre una merda. E' proprio così che farei, sai Meg? Giocherei con la penna sul luogo di lavoro, schiacciando ripetutamente col pollice il tastino per far venire fuori la punta, clic clac clic clac, e penserei a un modo nuovo per migliorarti la giornata. Lascia perdere che non sono un attore di Hollywood, che non ho un parco macchine da collezionista egiziano, lascia stare: tu devi solo pensare ad essere il 15% della Meg Ryan che interpreti nel film "Harry ti presento Sally" e io ti assicuro, in cambio, un amore perfetto, il primo amore della terra. E sesso, naturalmente. Tanto sesso, oppure pochissimo, anche niente, mai, a seconda di come ti senti.
Ci sono io, sono di nuovo in quel museo delle cere pazzesche. Non so perché ci sia tornato. Forse la Meg Ryan che ho portato via sottobraccio era difettosa e ho intenzione di cambiarla. Forse a un certo punto mi sono stufato anche di lei. Oppure è stata una sua scelta. Magari è l'ansia. L'ansia che io abbia fuso, tra le tante, anche la statua di cera della donna giusta. L'ansia di non essermene accorto. L'ansia, ancor maggiore, che non se ne sia accorta lei. Succede tutti i giorni in tutti i posti che esistono. Non combino granché, stavolta, nel museo delle cere dell'altro mondo. Me ne gironzolo un po' con le mani dietro la schiena e mi allargo due o tre volte il collo alto del maglione perché mi fa pizzicare la barba. Fuori una grande macchina del vento mi sbatacchia sul viso delle bellissime foglie gialle autunnali: sono bucherellate, sembrano fatte di pizzo. Una voce mi dice di andare avanti, un tizio col megafono mi strilla qualcosa. Io non riesco ad obbedire agli ordini. Mi fermo e qualcuno si infuria. C'è uno sbattere in terra delle cartellette e alcuni fogli di appunti volano via. Una voce ordina di spegnere quelle dannate macchine del vento. Proprio così dice: dannate. Resto fermo in questo freddo autunno newyorchese e l'unica cosa che mi riesce di pensare è a quanto rideremmo insieme, quella Meg Ryan lì ed io, se un giorno a cena le dicessi, posando il bicchiere sulla tovaglia bianca, ehi te l'ha mai detto nessuno che assomigli a Billy Boyd?
Il 2008 ha decretato l'esplosione atomica di Facebook, ma ogni grande successo lascia sempre dietro di sè una scia di cadaveri. Oltre alla privacy di tutti noi, vittime illustri parrebbero essere i famigerati Blog, tanto che molti di noi non hanno nemmeno fatto in tempo a capire "che cosa fossero" che già vengono relegati a passatempo per chi se lo può permettere. Una cosa in più, per gli affezionati artigiani del web.
Ovviamente il discorso è sguaitamente generico, ma la tendenza che si annusa in giro vede sempre più una diaspora fra i mille rivoli dei social network (non soltanto Faccialibro) a discapito del formato blog, classico e personalissimo. E se su Facebook possiamo finalmente farci i cazzi degli altri come non mai (anni e anni che navighiamo e finalmente ci siamo riusciti), i blog hanno una caratteristica unica che nessun social network potrà mai avere, propria per la sua intrinseca natura.
I blog sono "pubblici": non ci si deve iscrivere per leggere il loro contenuto, sono liberamente, casualmente, accessibili da chiunque sulla faccia della terra. Facebook invece è la Sky di noantri, gratuita certo, ma se non hai la "parabola" non vedi la "partita": non accedi ai contenuti pubblicati da noi. Per leggere quello che sto scrivendo ora invece, non siete obbligati a iscrivervi a un bel niente, e non dovete preoccuparvi di quale foto con l'angolatura migliore del vostro seno scegliere per il profilo. Questa pagina è il servizio pubblico delle nostre menti pensato e divulgato per le vostre. Così sono i blog, la realizzazione artistica e compiuta del nostro ego, in cui possiamo permetterci il lusso di usare addirittura un nick, velleità che Facebook ci ha rubato imponendoci (l'uso comune, perlomeno) di riutilizzare quei burocratici nomi e cognomi che neanche all'anagrafe.
Nelle pagine tutte uguali, con tutte la stessa grafica (ma quanta soddisfazione dava farsi il proprio template su misura?), si consuma l'invasione della realtà su internet, il ribaltamento dei ruoli: la rete torna passiva di fronte all'attiva quotidianeità, con tutto il suo carico di "ipocrisia" nell'aggiungere volti rinnegati da anni di vita che ci avevano separato (ed un motivo ci sarà pur stato, se non ci si incrociava più, o no?).
La neutralità dei blog ha consentito a tutti noi di partire (teoricamente)sullo stesso piano, spogli del nostro vissuto, e di farci casualmente relazionare tra noi. I blog hanno fatto nascere amicizie, amori, litigi: hanno prodotto socialità realmente vergine, mentre Facebook non fa che oliare le amicizie che già abbiamo, e rinchiuderci nel nostro clan, più o meno allargato. Dove sta la casualità della scoperta di un bel post? Avremmo potuto mai scoprire il Maestro Chinaski (un esempio a caso) senza essere suoi amici, in un modello di social network chiuso come Facebook?
Che me ne faccio della comodità (pigrizia) di rintracciare e mantenere i miei rapporti sociali, se questo mi preclude la conoscenza di nuove persone?
Oggi per leggere molti di voi blogger che un tempo venivate addirittura qui a commentare o ci si incontrava alle primordiali feste nei foyer a Milano, mi tocca iscrivermi ad accrocchi mangia-tempo come FriendFeed, oppure essere vostro amico (per imperscrutabili motivi) su Facebook. E così non riesco più a leggere cosa scrive certa gente perchè non gli sono "amico" in uno dei tanti social network. Alla faccia della neutralità di internet.
Col senno di poi, in cinque anni di blog avrei dovuto curare molto di più le relazioni sociali, o forse è soltanto una lenta deriva, aperte miliardi di virgolette, mafiosa, chiuse le miliardi di virgolette, della scena blogghereccia italiana. E qui, noi si rimane da dove si era venuti: da fuori.
Esonda il fiume delle Classifiche di Fine Anno: il New York Magazine riassume il 2008 della cultura.
Mentre scendevo dal treno, qualche giorno fa, incappo nella discussione tra un ragazzo e una ragazza che restavano seduti ai loro posti uno di fronte all'altro. Lei sfogliava Chi, lui guardava interessato in silenzio. Lei gira su una pagina dove si parla dell'Isola dei Famosi e domanda:
Ma tu per chi tenevi all'Isola? Domanda alla quale lui prontamente spara un nome, sicuro, tranquillo, come se avesse domandato il suo cognome, il segno zodiacale o il numero di scarpe.
Io ho pensato, che sfigato che sono, non cel'ho un "vip sull'isola preferito". L'avesse chiesto a me avrebbe sbadigliato annoiata davanti ad un giovane di 25 anni che non segue l'Isola dei famosi.
Mi sono immaginato ad un party esclusivo, con il martini in mano e la giacca ben stirata, sostenendo una conversazione con persone di un certo livello. Le ho immaginate disgustate della mia mancata preparazione su argomenti di gossip, di televisione, di cultura popolare moderna fatta di chirurgia plastica e toupè. Arrancando per celare la mia ignoranza, adducendo giustificazioni assurde come il non pagamento del canone Rai e il famigerato taglio dei fili, creando in poco tempo il vuoto intorno a me.
E' un mondo complesso: per stare al passo e vivere in società bisogna avere cognizione di ogni stupidaggine accada sulla Terra, di ogni gaffe, di ogni donna nuda, ogni scazzottata, parolaccia, scoreggia, e per questo Dio ha creato la colonnina laterale di Repubblica.it e lo ringrazio ancora adesso.
Ma che Ferrara fosse prima di Bologna la ragazza che leggeva Chi proprio non lo sapeva e ha dovuto chiederlo a me mentre sostavo davanti a lei, altrimenti sarebbe scesa anzitempo rimanendo un'ora a vuoto a prendere freddo sul binario tre della città estense, sfogliando Chi nervosamente, sognando le Honduras e una quinta abbondante per Natale.
Possono stare tranquilli, possono dormire su quattro cuscini. C’è un emendamento del relatore che ripristina il livello originario dei fondi per le scuole paritarie
Quelli riducono le risorse dedicate alle scuole cattoliche? Loro sbuffano un pochetto, e dopo poche ore tutto torna come prima. Come sempre.
Tra presidente e ministri tutti, questo Governo non ci fa mai mancare un po' di sano STUPORE.
Perla n°1 - Silvio Berlusconi.
Perla n°2 - Maurizio Sacconi.