Il film più curioso del momento è senza dubbio l'omaggio al cinema muto del regista francese Michel Hazanavicius con il suo The Artist, che reduce da premi e plausi della critica sta andando bene al botteghino complice il passaparola incuriosito su questo film anomalo. Niente da dire, la trovata è simpatica e nonostante l'assenza del parlato il film è godibile da inizio a fine senza momenti di impasse. Magnifici i costumi e l'interpretazione dei due protagonisti, superlativa la colonna sonora davvero calzante e simile alle grandi orchestrazioni della Hollywood dei tempi d'oro. Tutto bello, tutto riprodotto fedelmente, ma ahimè la tecnica di oggi ha in alcuni punti preso troppo la mano penalizzando la riuscita complessiva della pellicola, così che la fedeltà low-fi di un film volutamente antico è suonata finta in più di un momento.
Prima di tutto la grana della pelicola è completamente assente: nessuna bruciatura, intoppo nel flusso audio e video, sbvatura e polvere, nessuna vignettatura dell'immagine come si usava all'epoca. Nelle scene iniziali si mostra un cinema e la gente che guarda uno schermo enorme, che sembra uscito dai multiplex del duemila: immagine perfetta, bordi nitidi e nessun segno dell'imperfezione tecnica che c'era nel 1927. Il digitale impoverisce insomma un po' tutto rendendo ogni cosa pulita ed ordinata come un film dei nostri tempi.
Ma veniamo al tasto più dolente: sin dai titoli di testa si rimane un po' male vedendo l'uso di font moderni per riprodurre le scritte a video. Nel 1927 tali titoli erano per lo più disegnati a mano e quindi molto imprecisi e semplici. La scelta di utilizzare un font dallo stile retrò danneggia fin dal primo minuto l'idea complessiva di fare un film in tutto e per tutto retrò. Nei film dell'epoca erano certi dettagli a dare il senso del lavoro che c'era dietro: confrontando una g con un'altra g si notava talvolta che erano scritte diversamente, ma se si utilizza un font da computer ogni lettera sarà banalmente uguale alle altre. Sorvoliamo poi che si sia usato un tipo di font tipicamente da film noir e non sentimentale come la nostra pellicola doveva essere.
Poche scene più tardi la stampa si accalca all'uscita del cinema per fotografare il protagonista: i cartellini PRESS che calzano sul nastro del cappello sono addirittura in Helvetica (o forse un Arial, servirebbe un fermo immagine per esserne sicuri), un carattere tipografico che non farà la sua comparsa almeno fino al 1957.
E ancora: i magazine e rotocalchi finti mostrati, i titoli di finti film di cui vengono mostrate locandine, titoli di coda e tanto altro materiale in tutto il film è reso con font tipografici da computer degli ultimi dieci o quindici anni, certo con un saporè decò ma senz'altro non fedeli a quanto si poteva ottenere all'epoca manualmente o con le macchine in uso in quei tempi.
Nello stesso errore era già incappata la bellissima sigla iniziale di Mad Men, coerente stilisticamente all'epoca del telefilm ma che scivolava clamorosamente in una scritta di poco conto sullo sfondo (al minuto 0:20), composta in un font di Microsoft Office. Errori perdonabili? In una sigla probabilmente si, ma in un film intero sono il sintomo di una frettolosa ricerca iconografica e poca cura per i dettagli. Spesso ciò che hanno reso grande un regista o celebri scene che oggi tutti mandiamo a memoria.